Noi e la Memoria

L’affermazione secondo cui gli ebrei parlano troppo di Shoah non proviene solo dall’esterno del mondo ebraico ma spesso anche dall’interno: qualcuno, si dice, utilizza la Shoah come scorciatoia per tener viva un’identità poco solida. È un’opinione che ho letto e ascoltato più volte, espressa anche da persone che stimo, dunque l’ultima cosa che vorrei è alimentare polemiche; tuttavia non posso fare a meno di pensare che quest’accusa così grave sia ingenerosa e, stando alla mia esperienza, ingiusta, per lo meno in Italia. Ingenerosa perché quasi sempre chi parla di Shoah non lo fa per proprio piacere (sembra quasi assurdo doverlo precisare), e spesso neppure perché nutra un particolare interesse per l’argomento ma semplicemente perché non ne può farne a meno e se non lo facesse toccherebbe ad altri occuparsene. Le nostre Comunità e l’UCEI dovrebbero forse astenersi dal partecipare ad eventi organizzati in occasione del Giorno della Memoria? Dovrebbero rifiutare inviti? Negare il proprio aiuto a chi cerca testimoni che intervengano nelle scuole? I testimoni dovrebbero rifiutarsi di andare? Dovremmo mandare via tutti coloro che cercano documenti o informazioni dicendo: “Siamo spiacenti, non ci occupiamo di queste cose”? Dovremmo tacere di fronte al negazionismo o alle banalizzazioni dicendo che non sono affari nostri? E noi insegnanti ebrei nelle scuole pubbliche dovremmo astenerci dal partecipare alla preparazione di attività che riguardino in qualche modo la Shoah? Lasciare che se ne occupino i colleghi senza dare nemmeno un piccolo contributo? E magari tacere o far finta di niente se poi saltano fuori errori o distorsioni?
Ancora più triste quando queste accuse ingenerose vengono rivolte contro le Comunità medie e piccole, contesti in cui tutti sono costretti a occuparsi di tutto senza potersi permettere il lusso di scegliere.
Personalmente non conosco nessuno che si diverta a parlare di Shoah. Non sono discorsi facili, né a buon mercato. Rievocano memorie famigliari dolorose, ferite non ancora rimarginate. Chi non preferirebbe partecipare a un seder di Pesach, cantare e ballare a Simchat Torah, accendere le candeline di Chanukkah mangiando frittelle? Una persona assimilata che cerca una via facile e poco impegnativa per mantenere un’identità ebraica sbiadita andrà al bet hakeneset una volta all’anno, parteciperà svogliatamente a qualche cena in famiglia, al limite digiunerà a Kippur o, se proprio ci tiene a limitarsi ad attività “laiche”, potrà sempre darsi da fare a favore di Israele. Ma perché dovrebbe mettersi a parlare di persone deportate e uccise, scavare tra i ricordi dolorosi di amici e parenti che a loro volta preferirebbero parlar d’altro, angosciarsi pensando a indifferenze e complicità ancora oggi taciute o negate, solo per tenere viva la propria identità ebraica? Sarei curiosa di conoscere una persona così autolesionista.
Certo, per il popolo ebraico sarebbe stato meglio se la Shoah non fosse mai avvenuta (sarebbe superfluo dirlo se gli antisemiti non affermassero continuamente il contrario); se tante comunità e tanti rabbini, artisti, intellettuali, ecc. non fossero stati annientati; se non fossimo costretti a dedicare così tanto tempo e così tante energie alla Memoria. Ma non basta non parlare di Shoah per poterci comportare come se non fosse mai avvenuta.

Anna Segre

(5 novembre 2021)