Storie di Libia – Mino Meghnagi

Mino Meghnagi, ebreo di Libia. Aveva cinque fratelli e una sorella. Uno di loro, Victor, fu tra i promotori dell’apertura del Tempio di via Oderisi da Gubbio a Roma. Nato il 6 novembre 1946 a Tripoli, Mino ha sempre cercato di avere buoni rapporti con i membri della comunità italiana e di quella araba. Si considerava un amico degli arabi: infatti giocava a calcio con loro ed era molto bravo. Eccelleva anche in altri sport, come la pallacanestro e la pallavolo. All’età di 13 anni vinse addirittura una maratona. Nonostante questo, spesso doveva sopportare le battute antisemite che gli venivano rivolte. Malgrado i suoi tentativi di vivere in armonia alla fine veniva sempre trattato come “l’ebreo del gruppo”. In realtà gli ebrei libici non hanno mai avuto vita facile tra gli arabi, è dura dimenticare gli episodi accaduti durante la II Guerra Mondiale. Inoltre, racconta, i giovani dovevano anche difendersi da molestie esplicitamente sessuali.
Mino cercava di conservare un buon rapporto con tutti, in veste di atleta, con gli organizzatori libici delle gare e partite di calcio, di pallacanestro e pallavolo e altre tipologie di eventi sportivi. Purtroppo le gare non avevano mai esito positivo nei confronti delle squadre non arabe. Che vincessero o perdessero venivano picchiati e negli spogliatoi spesso molestati. Infatti ricorda che ogni sera ringraziava D.O perché aveva giocato bene a pallone ed era riuscito a tornare a casa senza essere importunato. Spesso doveva difendere anche i suoi amici e conoscenti da queste “attenzioni” e ciò gli fece guadagnare la fama di “difensore dei giovani ebrei e italiani”. La famiglia di Mino rispettava tutte le regole dell’ebraismo “in forma moderata”.
Gli arabi libici detestavano così tanto perdere con le squadre ebraiche che non solo organizzavano gruppi punitivi post partita per picchiare selvaggiamente i giocatori, ma arrivavano anche a violenze sul campo che nessun arbitro puniva. Un episodio rimasto impresso nella mente di Mino si svolse durante una partita di pallacanestro, dove appunto gli ebrei stavano avendo la meglio. Il loro giocatore migliore, Rahmino Fellah z.l., fu attaccato violentemente da quello della squadra avversaria (Ittihad) con una spallata da parte del giocatore arabo Mancusa. Lo fece volare fuori dal campo e la caduta fu talmente rovinosa da procurargli una frattura al braccio, alle costole e la rottura di alcuni denti. Tutte queste ingiustizie lo portarono a non rimanere più inerte ma a reagire, e da ciò nacquero spesso litigi violenti con gli arabi. A causa di questi episodi fu arrestato due volte, una volta per legittima difesa mentre un’altra fu accusato di controspionaggio. In quel periodo stava in galera con Raffaello Fellah z.l. e Sion Raccah z.l. È per questo che nel 1962 i suoi genitori decisero, quando aveva 16 anni, di mandarlo in Italia e cercare di farlo andare da lì in Israele. A Roma si rivolse all’Agenzia Ebraica, che si occupava delle procedure per l’Alyah. I responsabili lo avvisarono che, sistemate tutte le pratiche, sarebbe potuto partire per Israele e nel frattempo lo sistemarono in una pensione di nome Bahbout che collaborava con l’Agenzia e nella quale venivano alloggiate le persone prossime alla partenza. Conobbe un ragazzo col quale fece amicizia ma un giorno recandosi in sinagoga una macchina li investì, uccidendo sul colpo il suo amico mentre lui fortunatamente rimase illeso. Ripresosi dal trauma dell’incidente, si recò di nuovo all’Agenzia per avere notizie del suo trasferimento: gli venne detto con suo grande dispiacere che non poteva più partire per Israele. Non avendo nessun parente a Roma che lo potesse ospitare o aiutare, e non sapendo come fare per sopravvivere, iniziò a collaborare con due famiglie ebraiche di cui ricorda il nome – Rina Meghnagi in Arbib z.l. e l’altra Tera Uzzan in Arbib z.l – e l’Agenzia Ebraica, facendo piccole commissioni: questo lo fece benvolere dal capo dell’Agenzia. Ma suo padre, preoccupato per la sua sorte, insistette affinché facesse ritorno a Tripoli.
Nel 1950 la Libia aveva richiesto l’indipendenza e fu proprio grazie al voto degli ebrei capeggiati da Lillo Arbib z.l. che riuscì ad ottenerla. Il governo libico aveva fatto un accordo con la comunità ebraica promettendo di cessare persecuzioni e vessazioni, oltre a permettere la completa libertà di poter professare la religione, nel rispetto delle loro tradizioni. Ma una volta ottenuta l’indipendenza i libici non rispettarono nessuno dei patti concordati e le persecuzioni ricominciarono. La gioia della libertà durò pochissimo. I libici, indottrinati dalla propaganda religiosa e politica del Presidente egiziano Nasser, cominciarono a perseguitarli e non concedergli il permesso di uscire. Il clima in Libia prima della guerra dei Sei giorni era già abbastanza pesante. Tutti sapevano che stava per succedere qualcosa di molto grave. Infatti quando scoppiò la guerra fu l’occasione per i libici di sfogare il loro odio nei confronti della comunità ebraica. Scoppiarono molte guerriglie urbane e tumulti e i negozi degli ebrei furono incendiati, così pure le scuole, le abitazioni e alcune famiglie massacrate. Mino in quel periodo stava con la sua famiglia e altre che abitavano nel suo palazzo, in corso Sicilia. Questo palazzo era la sede della questura della polizia italiana durante la seconda guerra mondiale. All’entrata c’era un portone blindato di ferro che dalla fine della guerra non è stato mai mosso. Mino e la sua famiglia decisero di organizzarsi per non farsi catturare perché erano giunte voci che alcune famiglie fermate dalla milizia libica fossero portate in campi di raccolta: dopodiché nessuno aveva più loro notizie. La decisione fu quella di chiudere il portone e di non far uscire più nessuno.
Ci racconta che il gran portone di ferro dal quale si entrava nell’abitazione da molti anni non si poteva chiudere a causa della forte ossidazione dei cardini. Ma con utensili di fortuna, l’aiuto di altri uomini e la forza della disperazione, riuscirono a smuoverlo e lo serrarono. Era la notte tra il 7 e il 8 giugno 1967, decisero di fare i turni di guardia affinché nessuno potesse entrare. Ad un tratto sentirono bussare al portone con violenza, nessuno aveva il coraggio di andare ad aprire. Mino era di guardia, si fece coraggio e si trovò davanti un uomo grande e robusto che voleva convincere Mino a farlo uscire con la sua famiglia e cercava di forzare l’ingresso per uscire. Mino ruppe una bottiglia e brandendola lo minacciò di aprirgli la pancia con i vetri. I soldati dell’esercito se ne andarono. Questo atto di coraggio salvò la sua e altre famiglie. Egli stesso si meravigliò della sicurezza e del coraggio che aveva provato. All’epoca aveva 20 anni e aveva avuto il coraggio di sfidare il gigante, vincerlo con amore e bontà. Capi che era stato D.O a guidarlo e a dargli quella forza per proteggere se stesso e le altre persone. Ormai uomo maturo testimonia che in tutta la sua vita è sempre stato D.O a indicargli come agire, donandogli quella forza che solo Lui può dare. Mino insiste a chiarire che non è vero che gli ebrei libici siano stati cacciati via dalla Libia. In realtà gli ebrei erano talmente osteggiati da far loro desiderare di andarsene. Il presidente della comunità di Tripoli Lillo Arbib z.l. ricevette una lettera di invito per tutta la comunità da quella marsigliese, che li avrebbe accolti. Ma gli ebrei libici non conoscevano il francese, e parlando tutti italiano preferirono andare in Italia. Per questa ragione Lillo Arbib z. l. rifiutò l’invito, perché sapeva che i libici non avrebbero accettato.
Non tutti sanno che però a quel tempo l’Italia non gradiva affatto l’immigrazione, anche per problemi economici, e anche la Comunità ebraica non era in grado di sostenere l’ondata migratoria della comunità libica. Fortunatamente arrivarono dei fondi dalla American Joint, che aveva l’obiettivo di ospitare i profughi arrivati in Italia. Solo grazie all’aiuto finanziario della Joint l’Italia è stata disponibile a emettere un visto turistico. Quindi tutto ciò che l’Italia fornì agli ebrei libici fu un visto turistico, che ogni tre mesi doveva essere rinnovato, nell’attesa che si potessero organizzare per emigrare in altri paesi o in Israele. Mino lamenta che lo Stato italiano non aiutò in alcun modo i profughi ebrei come invece aveva fatto con i profughi italiani rimpatriati dalla Libia, non considerando che anche i profughi ebrei erano italiani dalla nascita perché la Libia era colonia italiana. Atto criticabile e condannabile dalla comunità internazionale nei confronti dell’Italia. Memore di tutto ciò che aveva sofferto in Libia e del suo breve soggiorno a Roma, una volta arrivato nella Capitale si mise a collaborare, come detto, con l’Agenzia Ebraica.
Mino così divenne uno dei responsabili dell’Agenzia a Roma: si occupava anche di coordinare tutti i campi di raccolta che c’erano in Europa per aiutare gli ebrei a tornare nella terra promessa. Grazie alle sue capacità di risolvere anche problemi ritenuti impossibili potè aiutare ebrei libici, polacchi, russi, rumeni, cileni, argentini e molti altri ad andare in Israele. È molto dispiaciuto che nessuno abbia ancora risarcito gli ebrei libici e ritiene che il primo Stato che dovrebbe farlo sia l’Italia.
Secondo Mino lo Stato dovrebbe lottare per chiedere il risarcimento alla Libia per gli ebrei libici che hanno dovuto lasciare ogni cosa, perdendo tutti i loro beni. Se anche la situazione politica in Libia dovesse cambiare crede che, come lui, nessuna delle famiglie immigrate vorrebbe più tornarci, a meno di poche persone molto anziane per una visita turistica per far conoscere ai figli e nipoti le proprie origini. Il governo libico non solo dovrebbe riconoscere gli sbagli commessi contro gli ebrei ma anche permettere che sopravviva ogni tipo di testimonianza della loro presenza millenaria in Libia, il ricordo di ciò che hanno subito e attuare il risarcimento dei beni confiscati.
Secondo Mino il ricordo dei pogrom e della Shoah, ogni monumento, costruzione, tempio e cimitero dovrebbe essere preservato in memoria. Poi ci dice: “La visione degli ebrei è solo quella di ritornare in Israele, non in Libia né in altre nazioni. La tradizione della cultura ebraica non deve andare persa, le tradizioni devono essere insegnate. La tradizione religiosa e l’insegnamento del rispetto dell’amore per la famiglia”. Conclude dicendoci che “preservare la famiglia e coltivarne l’amore è la più grande benedizione di D.O”.

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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(8 novembre 2021)