Educare alla Torah,
oltre ogni barriera

Su Pagine Ebraiche di novembre in distribuzione molte pagine speciali sono dedicate alla nuova mostra del Meis, il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara: Oltre il ghetto. Dentro&Fuori, a cura di Andreina Contessa, Simonetta Della Seta, Carlotta Ferrara degli Uberti e Sharon Reichel. Le riflessioni, su questo stimolante tema, del rav Amedeo Spagnoletto.

Stando al Talmud di Gerusalemme la prima grande rivoluzione si ebbe ai tempi di Shimon ben Shatach un secolo prima della distruzione del Tempio, con l’istituzione di un sistema di istruzione pubblico, “perché tutti i bambini andassero a scuola”. Non di minore rilievo è la testimonianza che proviene dal Talmud babilonese, secondo il quale fu essenziale la riforma scolastica completata, nel I secolo, dal sommo sacerdote Yehoshua ben Gamla, ricordato come colui che evitò “che venisse dimenticata la Torah da Israele”, allargando a tale scopo la rete di scuole in tutto il paese a partire dall’età di sei, sette anni, a favore di chi non poteva permettersi insegnanti privati (Greenberg 1960; Botticini, Eckstein 2012). L’elevato grado di alfabetizzazione presso gli ebrei deve il suo successo, quindi, alla determinazione con cui, in ogni contesto, le prescrizioni bibliche che imponevano lo studio della Torah e della letteratura rabbinica tradizionale a ogni livello furono tenute in considerazione. Non deve stupire il fatto che, contemporaneamente alla fondazione delle comunità fra Quattrocento e Cinquecento, prendesse corpo l’organizzazione di una struttura più o meno complessa di pubblica gestione che rispondesse all’esigenza di dare una formazione ebraica ai bambini. Anche nei centri più piccoli ci si preoccupava di garantire almeno la presenza di un istruttore pagato dalla collettività – figura che sovente coincideva con quella del rabbino – a favore dei più poveri, mentre le famiglie più abbienti assoldavano precettori personali, a servizio di più nuclei o addetti alla formazione dei rampolli delle famiglie più benestanti (Bonfil 1991). Non è un caso che proprio per la duplice funzione di luogo di preghiera e di studio, la sinagoga in Italia, come in altre realtà, venisse chiamata “Scola”. Fino al Seicento, quando ancora la popolazione ebraica era frammentata in insediamenti di ridotte dimensioni, era consueto che un giovane lasciasse presto la propria casa per recarsi ad apprendere la dottrina e la lingua ebraica presso collegi privati. Non era affatto raro che i primi fondamenti si cominciassero ad assimilare fin dall’età di tre anni, in gruppi di bambini e bambine insieme, dove il gioco era il veicolo attraverso il quale si iniziavano a imparare brevi preghiere, i precetti quotidiani e a familiarizzare con le lettere ebraiche.
La divisione fra maschi e femmine avveniva per lo più intorno ai sei anni con la previsione di esperienze diversificate.
Le ragazze, sebbene nella maggior parte delle realtà non fosse previsto un percorso di studi articolato come per i maschi, grazie alla rete dei precettori acquisivano pur sempre un’istruzione di base che consentiva loro di apprendere almeno i rudimenti dei testi sacri così come i precetti a loro destinati, ma sarebbe un errore considerare preclusa del tutto per loro la strada dell’istruzione superiore, nonostante le barriere dell’ambiente culturale e le limitazioni che l’interpretazione degli scritti sacri imponevano. È proprio attraverso la voce dei maestri che apprendiamo l’esistenza di numerosi casi di giovani la cui spiccata attitudine per gli studi era ripagata con la previsione di percorsi che premiavano il genuino interesse e le particolari capacità femminili (Weinstein 2007). Un’opera rivolta alle giovinette già grandicelle e proiettate a formare presto una famiglia trovò fortuna in Italia, al pari di altre simili al di là delle Alpi, e poté contare su svariate edizioni nel corso del Seicento e del Settecento. I Precetti da esser imparati dalle donne ebree, scritto in Yiddish da Binyamin Aharon Slonik nella seconda metà del Cinquecento e tradotto in italiano da Jacob Alpron che aveva maturato una lunga esperienza come istruttore presso case ebraiche, dichiarava già nel frontespizio l’intento di “mostrare la via di vivere secondo il dat yisrael (la legge di Israele), e di reggere la casa e allevar i figlioli israelim (ebrei) con il timor di Dio” (Settimi 2017).
Con maggiore puntualità siamo in grado di conoscere il programma di studi previsto per i maschi, declinato quasi ovunque almeno su due livelli distinti, in modo da preparare i giovani all’ingresso nella società previsto con il rito di passaggio del Bar Mitzvah a tredici anni. Il Talmud Torah (studio della Torah), era questo il nome generico con cui era nota la scuola, era previsto in ogni realtà ebraica persino di ridotte dimensioni. Lì si apprendeva innanzitutto a leggere e scrivere in caratteri ebraici e molto spesso anche l’italiano, a prescindere da quale fosse la comunità di appartenenza: tedesca, spagnola-portoghese o italiana. Specifica attenzione era rivolta alla lettura delle preghiere e della Torah, in modo che i fondamenti fossero acquisiti in maniera significativa e che potessero accompagnare il giovane per tutto il percorso della vita. La fisionomia giuridica che assumeva l’istituzione mutava a seconda delle realtà e in alcuni casi era parte del sistema delle confraternite che garantivano i servizi ai membri della comunità. A Roma, già nel 1602, la compagnia del Talmud Torah aveva personalità giuridica autonoma di associazione e dal regolamento della seconda metà del XVIII secolo apprendiamo l’esistenza di una biblioteca propria a servizio degli studenti (Ferrara, Franzone 2011). A Livorno, con la haskamà 65 del 1664, i maggiorenti decidevano di rendere obbligatoria la scuola pubblica messa a disposizione della comunità e di renderne proibita, salvo eccezioni, la gestione privata attraverso precettori dell’istruzione elementare (R. Toaff 1990). Il secondo grado scolastico forniva una preparazione media ed era frequentato solo da una minoranza di ragazzi. Il nome con cui era noto, soprattutto in Italia settentrionale, era esger, una sorta di internato dove i ragazzi più grandi venivano seguiti negli studi durante tutto il giorno; talvolta era previsto il pensionato e ai più poveri e meritevoli, oltre all’esenzione dal pagamento della retta, erano garantiti il vestiario e altri servizi. Il ventaglio di materie impartite a più livelli era articolato. Si aveva il primo approccio con il Talmud e i suoi commentari. Si apprendeva il contenuto degli altri libri biblici e delle principali opere esegetiche e si riceveva un’introduzione ai codici giuridici ebraici, in primis il Mishnè Torah di Maimonide e lo Shulchan Arukh di Yosef Caro. Questa era la strada preferenziale per chi avesse voluto continuare la formazione presso le yeshivot o accademie che proiettavano verso gli studi per l’ottenimento dell’ordinazione rabbinica. A Roma, all’inizio del Settecento, la scuola fondata da Tranquillo Vita Corcos prendeva a modello gli istituti già presenti al Nord e prevedeva, oltre all’approfondimento della lingua e della grammatica ebraica, e allo studio della halachah (ritualistica) e della qabbalah, anche un approccio ordinato alle arti del trivio e quadrivio, con l’obiettivo di fare in modo che gli studenti superassero i limiti culturali imposti dalla condizione di vita nel ghetto (Sermoneta 1989a; Caffiero 2019).
In quest’ultimo tipo di istituzione accademica, il requisito principe che ne apriva l’accesso non era tanto l’età, quanto la capacità di poter seguire con vantaggio le lezioni con o senza l’ambizione di giungere al titolo rabbinico e l’intento di continuare ad affinare le proprie conoscenze e mettere in pratica il modello di formazione permanente che contraddistingue la cultura ebraica (Bonfil 1991).

Rav Amedeo Spagnoletto, direttore del Meis

(9 novembre 2021)