Periscopio – Punizione collettiva

Come abbiamo detto, una questione importante da esaminare, ai fini di una valutazione dell’atteggiamento di Dante di fronte al destino di sofferenza che sarebbe stato riservato al popolo ebraico, per la sua presunta responsabilità derivante dall’accusa del cd. ‘deicidio’, è quella della concezione dantesca della “responsabilità collettiva”. Un concetto che, se particolarmente rilevante come pretesto per l’antigiudaismo di radice teologica ha una sua portata, ovviamente, più ampia.
Al riguardo, va innanzitutto precisato che tale carattere “estensivo” ed “espansivo” della responsabilità è presente, senza eccezione alcuna, in tutte le tradizioni culturali e religiose, di ogni epoca e latitudine, sia pure declinato in forme diverse. La stessa narrazione biblica è fortemente segnata da nessi eziologici di tale tipo.
Naturalmente, in questi casi, l’estensione delle conseguenze di un gesto malvagio, fino a colpire soggetti diversi e anche molto lontani da chi lo ha direttamente commesso, è da interpretare in senso metaforico, come un monito a considerare la forza distruttiva e contaminante del male, la sua attitudine a dilatare le sue conseguenze nel tempo e nello spazio, e non come un ingiusto castigo di individui innocenti. E tale principio si ritrova anche nel premio del bene, ma molto amplificato: il Signore restituirà merito per le buone azioni fino a “migliaia di generazioni” (Ex. 20.6, 34.7).
Secoli di interpretazione rabbinica, a partire dalla Mishnah e dai due Talmudìm, vanno chiaramente in direzione di una precisa individuazione della responsabilità personale, e di una individuale sopportazione delle conseguenze delle azioni negative, anticipando di tredici o quattordici secoli, si può dire, i valori fondanti del moderno diritto penale, che impone che nessuno possa mai essere chiamato a pagare per colpe altrui (princìpi sostanzialmente sconosciuti al mondo antico, nel quale non esisteva niente di simile all’odierna “presunzione d’innocenza”). E, da questo punto di vista, si può dire che la Commedia – nella quale ogni singolo spirito è punito, emendato e premiato esclusivamente per le proprie specifiche azioni, e mai per atti altrui – rappresenta (al di là della nota crudeltà delle pene, mirabile e terribile frutto della formidabile fantasia del poeta) un testo di grande modernità, in decisa controtendenza rispetto alla logica di quei tempi, che vedeva come un fatto normale la condanna di interi popoli o categorie di persone.
Dante considera un abominio il fatto che qualcuno sia colpito per responsabilità di altri, come dimostra, per esempio, nel XXXIII Canto dell’Inferno, il suo sdegno per la disumana sorte riservata ai quattro figli e nipoti del Conte Ugolino, che erano assolutamente innocenti. Uno sdegno che porta il poeta a pronunciare la famosa invettiva contro Pisa, “vituperio delle genti” (Inf. XXXIII. 79), nella quale si invoca, come atto di riparazione, l’annegamento di tutti gli abitanti della città. Ciò rappresenterebbe un’apparente contraddizione, dal momento che una ingiusta punizione collettiva sarebbe vendicata attraverso un’altra punizione collettiva, di proporzioni di gran lunga maggiori, che porterebbe anch’essa a fare perire degli innocenti. Ma si tratta, chiaramente di un’iperbole, volta a evidenziare l’enormità del crimine commesso dall’Arcivescovo Ruggieri: egli solo ne è responsabile, e solo a lui è riservato il terribile castigo, speculare alla crudele, macabra vendetta del Conte, al quale – anch’egli confinato tra i dannati – sarà comunque concesso di dare sfogo all’immenso odio per il suo acerrimo nemico, il cui teschio potrà rodere per l’eternità.
L’ideale di giustizia di Dante – inteso, per usare le parole di Immanuel Kant, come un “imperativo categorico” – lo porta, allo stesso tempo, a esigere che nessun misfatto resti impunito, ma anche che la pena raggiunga esclusivamente colui che si sia personalmente macchiato della colpa, e nessun altro. È sulla base di questa profonda convinzione che viene formulata, nel settimo Canto del Paradiso, una doppia domanda, alla quale Beatrice cercherà di dare risposta. Una domanda ‘muta’, si può dire, perché il poeta non la pone apertamente, ma fa in modo che la sua guida celeste la percepisca: se l’uomo che i cristiani considerano il figlio di Dio era innocente, perché ci fu bisogno del suo sacrificio? E, se tale morte era dovuta, sul piano della salvezza, perché si rese parimenti necessaria la “vendetta de la vendetta”, la punizione collettiva dell’intero popolo ebraico, per un atto di cui non poteva portare colpa, dal momento che ‘doveva’ accadere?
Sulla tale risposta, e il suo significato, ci soffermeremo nel contributo di mercoledì prossimo.

Francesco Lucrezi