Ticketless – Edmondo Solmi,
tra Gramsci e Spinoza

Se esiste un luogo nevralgico, un punctum dolens nella storiografia sugli Ebrei in Italia, questo è la recensione che, nell’aprile del 1933, il giovane storico dell’età classica, all’epoca venticinquenne, Arnaldo Momigliano dedica al libro di un rinomato storico anglosassone, Cecil Roth, Gli Ebrei in Venezia. Si formulava una tesi originale, cioè che il minore antisemitismo italiano fosse dovuto al fatto che gli ebrei italiani avevano raggiunto la loro coscienza nazionale «parallelamente» allo sviluppo della coscienza nazionale di tutti gli altri italiani. Con il passare del tempo quella intuizione divenne un canone, se non il dogma della «nazionalizzazione parallela». Intorno a quella recensione negli ultimi tempi, tramontato il culto per Gramsci, s’è scatenata una bagarre suscitata ad arte per una ragione più bassa e volgare: inchiodare Momigliano al fascismo e denunciare i suoi compromessi con il regime.
Sto cercando di ricostruire l’intera vicenda, consapevole che sia un vero caso giudiziario, in un contesto deprimente in cui dilaga purtroppo la storiografia giustiziera (o giustizialista che dir si voglia). Mi servirebbe la tenacia di Sciascia, la sua arte investigativa, per ricostruire le origini di un vero e proprio giallo. Il caso ha origine nell’attacco mosso in Ideologie del classicismo di Luciano Canfora contro il grande storico dell’età classica, dove protagonista è, fra gli altri, oltre Momigliano, anche Felix Jacoby, un altro classicista di origini ebraiche. Turbato dalla feroce stroncatura di Momigliano, Canfora ha scatenato i suoi allievi e colleghi per cercare di salvare il salvabile e vendicarsi, accusando il suo rivale di filofascismo. La controversia dura ormai da una quarantina di anni, ha molte ramificazioni e non accenna a svanire. Sto cercando di ricostruirla, passo per passo: una prima anticipazione della mia ricerca esce adesso sull’ultimo numero di “Cartevive”, ma il grosso del lavoro rimane da fare. Oggi approfitto di Ticketless per ricordare un protagonista dimenticato, un convitato di pietra di cui nessuno dei contendenti s’è mai occupato e mi dispiace. Mi scuso per la lunghezza insolita del mio testo
A quel dialogo a distanza con Gramsci, Momigliano rimase affezionato. Agì in lui il piacere dello storico-archeologo. Quando vide riaffiorare dal caos della guerra, negli anni del forzato esilio londinese, per le cure di Piero Sraffa, le pagine che lo riguardavano, quasi fossero novelli manoscritti di Qumràm, Momigliano si rallegrò, ma ne prese le distanze così come altrettanto sollecito fu nel prendere le distanze dal crocianesimo che le aveva ispirate. La ferita della Shoah (i genitori del grande storico furono deportati ad Auschwitz e non fecero ritorno) impose una revisione dei vecchi concetti di patria e nazione. In tutti gli scritti successivi alla Shoah, soprattutto in una conversazione di cui si ha notizia tramite Cantimori, Momigliano rivide quel giudizio troppo ottimistico e quella limitazione della portata dell’antisemitismo, che la sua tesi aveva ispirato.
La crescente fortuna di Gramsci esercitò invece una grande influenza sulla storiografia marxista in Italia e quella tesi rimase in vita senza critiche sostanziali. A partire dagli anni Novanta, diciamo pure dopo il 1989 è caduta in disgrazia e viene oggi percepita come una stanca formuletta, citata a proposito e spesso a sproposito, da chi è spinto innanzitutto dal desiderio di dimostrare che, sotto sotto, si nascondesse l’adesione del recensore al fascismo. Anche l’autorevolezza di Gramsci è venuta scemando dal giorno in cui la ricerca storiografica sull’antisemitismo fascista ha preso altre vie.
A guardare con serenità la questione, la recensione va restituita al momento in cui venne formulata e alla circostanza precisa che la rese possibile. Come ci ha ricordato Sasso, in particolare quelle righe altro non erano se non una carezza per così dire «scolastica» rivolta a Croce da un lettore della Storia d’Europa rimasto a tal punto folgorato dal finale beethoveniano di quel libro da mimarne lo stile. Ecco il passo della Storia d’Europa preso a modello da quello studente davvero molto scrupoloso nel riflettere su un libro che non può certo dirsi un manuale del buon fascista: «Per intanto, già in ogni parte d’Europa si assiste al germinare di una nuova coscienza, di una nuova nazionalità (perché, come si è già avvertito, le nazioni non sono dati naturali, ma stati di coscienza e formazioni storiche) e a quel modo che, or sono settant’anni, un napoletano dell’antico Regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l’essere loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri si innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all’Europa e i lor cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate già, ma meglio amate».
Le cose da aggiungere sono però altre. Come spesso accade in Italia, quando si affronta la annosa questione dell’antisemitismo fascista, la furia dei critici, talora condizionata da pigrizia intellettuale, ha oscurato un aspetto di quella recensione che va al di là dello scontato omaggio a Croce di uno zelante studente universitario. Rileggiamo il passaggio centrale:
A una tale storia di Venezia il libro del Roth offre naturalmente molto materiale e sarà perciò di indispensabile consultazione, pur nei limiti imposti da una trattazione che è senza note e con una bibliografia incompleta (manca per es. la notizia del libro del Solmi su Leone da Modena e della edizione laterziana dei Dialoghi d’Amore). Ma io non vorrei sembrare di mancare di riguardo a questo dotto straniero, che va scrutando da anni con competenza e con fervore gli archivi italiani e che ha pure dedicato un volume notevole a un momento capitale della storia fiorentina, se esprimo l’esigenza di trovare nei suoi libri meno aneddoti, sia pure interessanti, come li può dare un ricercatore del suo valore, e più storia. Per esempio, la figura di Leone da Modena, a cui egli ha dedicato abbondanti pagine nel capitolo VI Figure e tipi, approfittando delle sue curiose vicende per rallegrare, come si diceva una volta, l’erudizione del libro, si prestava ad altre più serie considerazioni: nel suo tormento e nei suoi squilibri c’è una complicata insoddisfazione della cultura ebraica, come di quella profana, la quale è tra i più importanti indizi che il Seicento ci offre della trasformazione che stava avvenendo nelle coscienze ebraiche (5).
I due riferimenti bibliografici che Momigliano suggerisce con garbo a Roth – e sui quali di nuovo concorda Gramsci – sono due consigli di lettura che i cerberi critici di Momigliano si guardano bene dal ricordare. Qui ci si muove lungo la diversa linea di una cattaneana solidarietà fra cultura ebraica e cultura italiana: 1. l’edizione dei Dialoghi d’amore di Leone Ebreo, un classico del pensiero ebraico, portata a termine da uno studioso non ebreo, Santino Caramella (Laterza, 1929). 2. «la notizia del libro di Solmi su Leone ebreo».
Edmondo Solmi (1874-1912) non è uno sconosciuto Carneade e il suo libro non è cosa marginale o puramente erudita. Curioso che nessuno si sia preso la briga di sapere qualche cosa di più su di lui: in tutte le numerose edizioni e ristampe (anche in lingua straniera) della recensione di Momigliano a Roth (sono ormai decine e decine) Solmi viene erroneamente indicato come Sergio Solmi, che di Edmondo era figlio.
Noto per gli studi leonardeschi, docente liceale, prima di trasferirsi a Rieti, al Liceo Gioberti di Torino fu collega di Felice Momigliano, lo zio di Arnaldo, che ne recensì alcuni lavori d’argomento risorgimentale. Di Gioberti, Solmi curò la trascrizione dei manoscritti conservati alla Biblioteca civica torinese. Ebbe fra i suoi allievi Roberto Longhi, Angelo Tasca, Umberto Terracini e Antonio Banfi. Non va dunque confuso, come accade, con il figlio Sergio (1899-1981) scrittore, poeta, responsabile dell’ufficio legale della Banca Commerciale Italiana, a sua volta padre di Renato Solmi (1927-2015), germanista, insegnante, redattore presso Einaudi. Edmondo morì in giovane età e fu presto dimenticato. Di lui ci restano gli Scritti vinciani: le fonti dei manoscritti di Leonardo da Vinci e altri studi, a cura di Eugenio Garin, con i ricordi familiari di Sergio Solmi, Firenze, La Nuova Italia, 1976. In un breve profilo da poco disponibile si riferiscono le annotazioni autografe di Freud: sottolineature e postille sulle monografie su Leonardo curate da Solmi, tradotte in tedesco nel 1908 e sulle conferenze fiorentine del 1910. Com’è noto, Freud a un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci ha dedicato un celeberrimo saggio, che è all’origini della teoria sull’inconscio.
Il libro che Momigliano suggerisce a Roth è dunque il seguente: Edmondo Solmi, Benedetto Spinoza e Leone Ebreo: studio su una fonte italiana dimenticata dello spinozismo, Modena, G. T. Vincenzi e Nipoti, 1903. Tanto sconosciuto non era se è vero, come è vero, che Gentile lo recensì sulla “Critica” del 1904 e lo raccolse poi nei suoi scritti sul Rinascimento del 1923, dove è verosimile che Arnaldo Momigliano lo abbia incontrato. Il Gentile migliore, dunque, il filologo studioso delle origini del pensiero moderno, non il Gentile fascista.
Sono riferimenti che spiegano meglio quale fosse il desiderio più profondo nascosto in quella recensione. Si rende quindi urgente una domanda: davvero il patriottismo fascista era in Momigliano così soverchiante? O non rimaneva in forze la ricerca del vero in nome del libero pensiero sciolto dai dogmi, che nella indagine di Solmi risaliva alle sorgenti stesse del libero pensiero e cioè a Spinoza? Davvero possiamo continuare a pensare che l’omaggio al transeunte regime di Mussolini sovrastasse i sentimenti di uno storico che ha dedicato la sua intera vita alla trasformazione dell’ebraismo nella modernità, con i suoi «tormenti e i suoi squilibri»?

Alberto Cavaglion