Il rapimento di Edgardo Mortara,
la pittura si fa denuncia

Davanti al quadro Il rapimento di Edgardo Mortara (1862) è importante soffermarsi sui dettagli. Il tallit katan con cui è vestito il piccolo Edgardo, il padre con la kippah che si protende per proteggerlo, la madre svenuta dal dolore, la presenza di una folta rappresentanza della Chiesa – un francescano, un gesuita e una suora e persino le guardie papali sullo sfondo – che strappa il bambino alla famiglia. Impossibile non interpretare le scelte iconografiche dell’artista Moritz Daniel Oppenheim come una denuncia forte e chiara contro le sopraffazioni da parte ecclesiastica. Nella tragica scena non c’è infatti una fedele ricostruzione di quanto avvenne, ma una sottolineatura del sopruso subito. Il piccolo, battezzato in segreto da una cameriera, fu sì strappato alla famiglia a Bologna, scatenando un terremoto politico in tutta Italia e non solo, ma non nei termini dipinti da Oppenheim. Ma questo non toglie nulla al quadro, anzi. E vederlo dal vivo al Meis di Ferrara, protagonista della nuova mostra “Oltre il ghetto. Dentro & fuori” (29 ottobre – 15 maggio), non può che generare forti emozioni. A maggior ragione se si pensa che il quadro di Oppenheim per 150 anni è rimasto celato agli occhi del pubblico e ora, per la prima volta dopo un secolo e mezzo, torna visibile a tutti grazie al prestito della famiglia Schottenstein che lo ha acquistato nel 2013. “L’arrivo di questo quadro è un evento da celebrare per l’intera Italia ebraica e non solo. Nel dipinto c’è il racconto di un evento che ha segnato la storia dell’ebraismo italiano” evidenziava Elèna Mortara, pronipote di Edgardo, contemplando da pochi passi e per la prima volta l’opera dal vivo. Al caso del lontano parente la studiosa, già docente di Letteratura anglo-americana, aveva dedicato il libro Writing for Justice. E nel catalogo della mostra ricostruisce con grande attenzione la storia della sottrazione del bambino alla famiglia e le sue ripercussioni. Di seguito proponiamo uno stralcio del brano di Elèna Mortara, in particolare il passaggio dedicato alla reazione del mondo ebraico italiano che in quegli anni si sta emancipando (l’editto di Carlo Alberto è di dieci anni precedente) e comincia a rivendicare con forza i propri diritti, così come la reazione sulla stampa internazionale.

In “secoli credenti”, il sequestro di Edgardo operato dalle guardie pontificie sarebbe passato sotto silenzio. Ma, nel nuovo clima liberale dell’epoca, e grazie alla forte reazione della famiglia che non accettò in silenzio il sopruso, il fatto non era apparso più così “semplicissimo” e aveva suscitato, al contrario, grande eco, dibattito e scandalo internazionale.
Protagonista della battaglia per il ritorno del bimbo in famiglia fu fin dall’inizio il padre, Momolo Mortara, sostenuto da altri membri della famiglia e della piccola comunità ebraica di Bologna: una comunità allora di poche decine di persone (gli ebrei erano stati espulsi da Bologna per decisione papale nel 1593, in piena Controriforma, e avevano cominciato a farvi ritorno solo in età napoleonica), molte delle quali, come gli stessi Mortara, di recente provenienza dalle vicine città di Modena e Reggio Emilia, facenti parte del confinante Ducato asburgico-estense di Modena e Reggio. Essendo Edgardo ormai rinchiuso nella Casa dei Catecumeni in Roma, si imponeva la necessità di perorare per il ritorno del piccolo in famiglia, rivolgendosi, con petizioni ben argomentate, non più solo all’inquisitore di Bologna ma anche al pontefice, il papa-re Pio IX, sotto la cui giurisdizione si trovava ormai il bimbo sequestrato. Un primo tentativo di contatto diretto con l’autorità pontificia fu compiuto il 4 luglio 1858, allorché da Bologna furono inviate due lettere firmate dal padre Momolo Mortara, una all’inquisitore Feletti in Bologna e l’altra al pontefice in Roma, per il tramite del potente segretario di stato cardinale Giacomo Antonelli, a sua volta destinatario di una ossequiosa lettera di accompagnamento (il tentativo era destinato a rimanere senza risposta). Iniziarono poi subito i contatti epistolari con i dirigenti della comunità ebraica, allora detta Università Israelitica, di Roma. Questa comunità aveva antiche, per quanto sofferte, consuetudini di colloquio con il potere pontificio, a causa della secolare sudditanza diretta a tale potere. L’Università Israelitica di Roma dovette, pertanto, farsi tramite dei rapporti con la Santa Sede nella difficilissima trattativa, e fu il giovane segretario dell’Università, Sabatino Scazzocchio, che nei convulsi mesi successivi al rapimento si trovò al centro del turbinio di lettere e sollecitazioni provenienti da Bologna e da altre parti del mondo ebraico, dentro e fuori lo Stato della Chiesa, e che cercò di gestire le trattative col papa e il suo segretario di stato cardinale Antonelli, in un delicato equilibrio tra il desiderio di risolvere il caso e la necessità di non pregiudicare i rapporti con il potente potere supremo del capo dello stato, il papa-re Pio IX. Fin dal luglio 1858 si cominciarono a profilare all’interno del mondo ebraico italiano due diverse strategie di lotta. Da un lato c’era la via propugnata dai dirigenti dell’Università Israelitica di Roma, i membri del Vaad (Consiglio) che, pur dichiarandosi subito pronti “a qualunque sacrificio” (Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, Decreti del Vaad dell’Università, 20 luglio 1858), cercavano di affrontare il dramma agendo con circospezione e nella massima discrezione rispetto al mondo esterno: fu per il tramite loro e del segretario Scazzocchio che in agosto Momolo Mortara poté per la prima volta essere ricevuto dal segretario di stato pontificio Antonelli, anche se non dal papa, e che poi, in agosto e settembre, poté incontrare alcune volte il figlio, seppur mai da solo, all’interno della Casa dei Catecumeni; e fu una delegazione dell’Università Israelitica che all’inizio di settembre 1858, ricevuta da Antonelli, trasmise per suo tramite la elaborata, rispettosissima nuova petizione rivolta al pontefice, composta da un “Promemoria” preceduto da una lettera dei genitori Mortara, con vari allegati, e da un dotto “Syllabus” in latino, contenente una silloge di documenti ecclesiastici atti a dimostrare la possibilità di derogare dal sequestro di Edgardo. Accanto alla via della trattativa segreta caldeggiata dall’Università Israelitica di Roma, vi era d’altra parte la via propugnata fin dall’inizio dai membri della comunità di Bologna, che già nella prima lettera a Scazzocchio parlavano del caso come di “una persecuzione incompatibile coi tempi che corrono” (lettera di Angelo Padovani, 9 luglio 1858) e che poi a fine luglio, esasperati dalla lentezza delle trattative, lo sollecitavano a mobilitare anche “i più eminenti Israeliti, esteri allo Stato nostro, per interessare la opinione pubblica europea, e nazioni e governi civili, etc.” (Kertzer 1996, pp. 70, 74).
La notizia del sequestro si era, del resto, diffusa rapidamente, non solo nelle varie comunità ebraiche d’Italia, ma anche all’estero, e cominciava ad apparire sulla stampa europea. In Francia il primo resoconto sul caso uscì sul quotidiano “La Presse” il 9 luglio 1858; in Inghilterra, la notizia venne data sul “Jewish Chronicle” per la prima volta il 16 luglio. “L’Educatore Israelita”, l’unico periodico ebraico italiano esistente all’epoca, uscì con un supplemento dedicato al “deplorevole” fatto di Bologna (cfr. Il fatto 1858); e il 12 agosto 1858 i rappresentanti delle comunità israelitiche sardo-piemontesi si riunirono ad Alessandria, dove firmarono un appello rivolto alle organizzazioni nazionali dei correligionari francesi e inglesi, il “Concistoire Central des Israélites de France” a Parigi e il “Board of Deputies of British Jews” a Londra, affinché, vista l’insensibilità papale alle petizioni della famiglia, coinvolgessero i loro governi nella protesta “contro il barbaro atto che si commise a Bologna” (in Anonimo [D. Rabbeno] 1859, p. 76). Fu così che a settembre la notizia del caso e dell’appello cominciò a diffondersi sempre più sulla stampa internazionale (il francese “Journal des Débats” ne pubblicò per intero il testo il 2 settembre 1858), e fu allora che iniziarono le prime proposte e iniziative pubbliche di protesta. Già nei mesi precedenti due membri della famiglia Rothschild, James Rothschild da Parigi in luglio e Lionel Rothschild da Londra in agosto, avevano inviato lettere private di protesta al cardinale Antonelli. Il 6 settembre 1858, in risposta all’appello degli ebrei piemontesi, il “Board of Deputies” britannico decise di creare uno speciale comitato, guidato dal presidente del Board Sir Moses Montefiore, con l’incarico di occuparsi del caso (Langham 2004; Green 2010). In quello stesso giorno, sull’“Allgemeine Zeitung des Judenthums”, il rabbino Ludwig Philippson, fondatore e direttore di questo periodico ebraico-tedesco, si faceva promotore di una petizione di protesta al papa che nel giro di un mese sarebbe stata sottoscritta da oltre quaranta rabbini prussiani (“Allgemeine Zeitung des Judenthums”, 6 settembre e 10 ottobre 1858). Il 9 settembre molti giornali britannici, incluso l’autorevole “The Times”, pubblicarono l’appello venuto da Torino e un resoconto sulle decisioni del Board; copie dell’articolo uscito sul “Times” furono spedite dal Board a 1800 esponenti del clero cattolico britannico (Langham 2004). In Francia, la cui stampa avrebbe avuto particolare importanza nel dibattito che stava esplodendo, il 22 settembre sul “Journal des Débats” usciva la vibrante petizione del “Concistoire Central des Israélites de France”, rivolta direttamente all’imperatore Napoleone III, perché intervenisse in favore di una famiglia “vittima di una violenza odiosa che si compiva or son due mesi circa quasi all’ombra del nostro glorioso vessillo e sotto gli occhi de’ nostri bravi soldati” (versione italiana in Anonimo [D. Rabbeno] 1859, p. 77). A partire da settembre e con sempre maggiore intensità dall’inizio di ottobre 1858, lo scandalo per l’irrisolto caso del bambino Mortara si espandeva sui giornali d’Europa. L’episodio di Bologna suscitava stupore, scandalo, interrogativi. Era la negazione dei diritti naturali e dei diritti di famiglia, un esempio di barbarie, tirannia e intolleranza, una vergogna, una macchia, un crimine contro l’umanità: sono espressioni che traiamo dalla stampa dell’epoca, dalle pagine dei quotidiani britannici “The Times”, “Daily Telegraph”, “Daily News”, “Morning Adviser”, “The Spectator”.

Elèna Mortara, Oltre il ghetto. Dentro & fuori, Silvana Editore

(Nell’immagine in alto, Moritz Daniel Oppenheim, Il rapimento di Edgardo Mortara 1862 – Jay and Jeanie Schottenstein Family Collection of Judaica)