Storie di Libia – Abraham Haiun
Abraham Mimmo Haiun, ebreo di Libia. Nato a Tripoli da genitori ebrei italiani, il padre era un soldato sotto il fascismo. Dedica questa intervista a sua sorella, ai suoi genitori, agli amici e all’esercito israeliano.
Durante la sua infanzia con la famiglia si era trasferito da un quartiere all’altro a seconda del miglioramento di posizione di suo padre. Di questo periodo conserva anche brutti ricordi, in particolare gli arabi che abitualmente fermavano i ragazzini ebrei in strada per costringerli a dire una frase sull’Islam, a recitare la preghiera islamica, il loro tentativo di convertirli con la forza. Spesso, a causa di disordini o sommosse che avvenivano in Europa o all’estero, la comunità araba tendeva a colpevolizzare la minoranza ebraica trovando scuse per rappresaglie, incendiando scuole, case, negozi. Per molti anni e fino al 1967, lavorò in qualità di responsabile in un cantiere molto importante che costruiva case e palazzi, e che vendeva al dettaglio cemento e legname. Il giorno che scoppiò la Guerra dei 6 giorni, gli ebrei vennero assaliti dagli arabi che li accusavano dei bombardamenti, come ebrei: colpevoli sempre di tutto. E questo odio violento scatenatosi nei loro confronti divenne inarrestabile, tanto che venne intimato a tutti gli ebrei libici di lasciare il paese. Mimmo e tutta la sua famiglia cercarono di raggiungere il Consolato italiano.
Mentre gli altri riuscivano ad entrare, venne attaccato da due arabi che cercarono di ucciderlo. Fortunatamente però trovò rifugio in un negozio di barbiere, dove rimase in attesa che dei diplomatici venissero a prenderlo. Imbarcato sulla nave in attesa che essa salpasse, fu fermato da un ufficiale libico che minacciò di gettarlo in mare. Vedendo che non reagiva, gli diede un violento schiaffo colmo di odio che a distanza di anni non ha mai dimenticato.
Mimmo ai suoi figli ha trasmesso soprattutto i bei ricordi della sua vita in Libia e non molti di quelli spiacevoli non dimenticando di insegnargli tutte le regole religiose trasmessegli dai genitori. Ovviamente dovendo scegliere se scappare o essere uccisi, abbandonando tutto ciò che possedevano, all’inizio la situazione fu decisamente traumatica.
Proprio per questo motivo non prova nessuna nostalgia per la Libia e non ha nessun interesse a tornare. Non ha paura, semplicemente non c’è più niente che lo leghi a quel posto.
La sua famiglia coltiva ancora le basi e le tradizioni religiose praticate in Libia. La sofferenza è dimenticata ma i ricordi rimangono. In fin dei conti ci dice che la loro sopravvivenza non è stata poi così dura.
Col passare del tempo la famiglia si è dispersa tra l’Europa e Israele.
Mimmo si è ben integrato in Israele e lì si sente a casa. “Il sionismo è una malattia, fino a quando non vivi in Israele”, commenta.
Reputa una causa persa cercare di recuperare ciò che gli ebrei libici hanno dovuto abbandonare e i beni confiscati dal governo. Pensa che sarebbe un’ottima idea dare fondi per preservare e proteggere il cimitero e le sinagoghe ebraiche in Libia come testimonianza del loro passaggio e se la situazione politica cambiasse sarebbe cosa giusta costruire un monumento in ricordo delle vittime dei pogrom e della Shoah in Libia.
Ma tutto questo dovrebbe essere richiesto da governi potenti non da singoli individui.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(15 novembre 2021)