L’autonomia di Dante
Abbiamo detto le volte precedenti che, per valutare l’atteggiamento di Dante di fronte al destino di sofferenza inflitto dalla Chiesa al popolo ebraico per l’accusa di “deicidio” e, più in generale, riguardo alla giustificazione di una punizione collettiva, è necessario fare riferimento alla specifica posizione del poeta nei confronti del concetto di mistero, che occupa una posizione di rilievo nella sua complessiva visione ideologica.
Prima, però, di analizzare specificamente il pensiero dantesco in materia – con particolare riferimento alla sua interpretazione della peculiare funzione di Israele sul piano soteriologico – è opportuno dire due parole sul significato contemporaneo della nostra parola “mistero”, e sulla grande differenza che essa assume nel quadro della teologia cristiana (in particolare del tempo di Dante) e del pensiero ebraico.
L’ebraismo, com’è noto, si è affermato storicamente come un patto di fedeltà fondato principalmente sul riconoscimento di una Scrittura e sull’osservanza di una serie di comportamenti (la cd. ‘ortoprassia’), che ha permesso, attraverso le generazioni, di conservare e costruire una peculiare identità di popolo e di nazione. Definire tale identità – com’è noto, particolarmente prismatica e complessa – non è facile (così come, d’altronde, ogni definizione identitaria può sempre apparire soggettiva, relativa e opinabile), ma credo che si possa convenire sul fatto che un suo elemento essenziale sia rappresentato dal rapporto tra fissità della lettera e libertà della sua interpretazione. Si può, naturalmente, abbandonare la religione ebraica, come qualsiasi altro credo religioso, ma non è possibile – per chi non voglia consumare tale abbandono – alterare uno solo dei 304.805 caratteri che compongono il testo della Torah, considerato eterno e immutabile, preesistente alla stessa creazione dell’universo. Ma, allo stesso tempo, in assenza di una Chiesa deputata a fornire un’unica interpretazione autentica e vincolante della Scrittura, a nessuno potrà mai essere vietato di interpretarne liberamente il senso. Come è scritto, “lo bashamàim hi”, “(la Torah) non è (più) in cielo”, in quanto, una volta che è stata data all’uomo, competerà a lui solo, su questa terra, in piena libertà e responsabilità, capirne il significato e trarne le debite conseguenze. Così, non possono esistere, nell’ebraismo, obblighi di credo, ma solo doveri di prassi, scaturenti dal rispetto di quei precetti che, eletti ad halachah, retta “via” da seguire, costituiscono il percorso (perché, appunto, si tratta di un percorso, un tragitto, non di un qualcosa di statico, come il termine “via” sta a indicare) identitario, spirituale e morale del popolo del libro.
Il distacco del cristianesimo dalla sua “santa radice”, invece, si consumò proprio – a seguito dell’innesto della tradizione ebraica nel pensiero greco e dell’iniziativa di Paolo di Tarso e dei suoi successori – attraverso lo spostamento dagli obblighi di prassi a quelli di fede. Nella loro visione solo il magistero ecclesiastico, “unico e infallibile”, com’è noto, sarebbe stato preposto alla definizione di quei dogmi di fede che avrebbero rappresentato il recinto ideologico della cristianità, il discrimine tra l’essere ‘dentro’ e ‘fuori’ di essa. L’ortodossia cristiana presenta come ‘misteri’ quelle verità di fede che sfuggono alla umana razionalità, ma devono, ciò nonostante, essere accettate, ‘spegnendo’ si può dire, la curiosità di capire il ‘perché’, che non si può e non si deve comprendere. Una limitazione all’umana interrogazione e speculazione che non è dato riscontrare nell’ebraismo.
Non tutte le “verità di fede”, però, sono assurte a livello di dogma. È capitato, anzi, che molti dogmi siano caduti praticamente nel dimenticatoio – in quanto diventati, a un certo momento, di scarsa importanza pratica -, mentre delle credenze molto diffuse e radicate non sono diventati dei dogmi. Non è avvenuto, per esempio, per l’idea che gli ebrei (tutti, di ogni luogo e di ogni tempo) siano collettivamente responsabili per la morte di Cristo e debbano pertanto pagarne le conseguenze. Eppure, è ben noto quanto e come questo “non dogma” abbia dolorosamente segnato quasi due millenni di storia cristiana.
Dante – pur, certamente, pienamente inserito nella cultura teologica del suo tempo – dimostra, in molte occasioni, grande autonomia di giudizio di fronte al magistero ecclesiastico. E, soprattutto, solleva molto spesso delle domande, anche – anzi, soprattutto – quando le risposte appaiono difficili. E, in tale interrogazione, mostra sovente di volere cercare di conciliare con la sua ragione delle verità di fede che gli paiono velate e oscure. Così facendo, egli mostra – da una parte – di estendere il concetto di ‘mistero’, allargandolo anche a credenze non di tipo dogmatico, e – dall’altra – di volersi impegnare in uno sforzo di comprensione tanto arduo (e, per certi versi, ardito ed eterodosso) quanto necessario.
Ciò, come vedremo, appare anche nei confronti del “non dogma” della punizione collettiva del popolo d’Israele.
Francesco Lucrezi
(17 novembre 2021)