Il sospetto, gli angeli e i demoni

Quando avviene che un legittimo allarme sociale rischia di trasformarsi in una mobilitazione dei pregiudizi, pervertendo da subito la premessa che lo anima, ossia quella di aiutare chi è in difficoltà, dal momento che si trasforma invece in un esercizio di vessazione e sopraffazione verso chi viene bersagliato, anche se non ha alcuna colpa? Qual è la soglia critica, superata la quale, si perverte l’altrimenti fondamentale principio di tutela dei più fragili per transitare verso la persecuzione degli innocenti, attraverso la loro diffamazione, la calunnia, la denigrazione e l’isolamento sociale? Il tema in sé rimanda al transito, pressoché immediato, tra difesa delle persone socialmente più deboli (a partire dai bambini), nei confronti delle violenze più turpi (esercitate dagli adulti), e diffusione di una compiaciuta cultura del sospetto, che intorbida da subito le relazioni sociali, non solo emettendo condanne a ripetizione ma compiacendosi del poterlo fare. Non è solo una questione etica, così come – soprattutto – di immediata preservazione di coloro che vengono ingiustamente vittimizzati da una pratica che è invece quella della ricerca a tutti i costi dell’untore, in questo caso mascherandosi, d’abitudine, sotto la finzione della salvaguardia dell’infanzia. Poiché la lotta alle violazioni dell’integrità e dei diritti dei più deboli, se non è ricondotta ai rigorosi sistemi della giustizia (non sommaria, quella che altrimenti si esprime nella piazza, fisica o mediatica, eccitata e irrefrenabile), rischia da subito di deragliare in un gioco di fantasmi, mistificazioni, azzeramenti dei principi stessi di ragionevolezza, di riscontro, e così via. Un discorso peraltro complesso, quest’ultimo, poiché va a toccare nervi scoperti e pronti da subito ad infiammarsi a ripetizione. Si tratta di un problema di metodo (come fare una certa cosa) ma anche e soprattutto di merito (cosa si deve effettivamente fare e rispetto a quale concreto problema). Le nostre società, quelle a sviluppo avanzato, stanno da tempo sviluppando un’attenzione, ai limiti dell’ossessione, nei riguardi del corpo individuale. Descritto come l’ambito materiale, fisico ma anche – e soprattutto – simbolico, sul quale misurare la condizione universale di vittima. Che è divenuta una specie di paradigma universale del bisogno, alternativo all’applicazione stessa dei diritti elementari: “ascoltami e soddisfa le mie necessità non in quanto essere umano me per la mia condizione di vittima degli umani”. Il vittimismo, come fisionomia alla quale aggrapparsi, è cosa molto diversa dall’essere effettivi perseguitati e oltraggiati. Poiché è una sorta di abito con il quale presentarsi per raccogliere attenzioni e consenso intorno a se stessi, senza un qualche obbligo di concreto riscontro delle situazioni e delle relazioni di cui si dice di essere oppressi. Si tratta di qualcosa che è del tutto decontestualizzato dal principio di realtà, e con esso, di verifica. La qual cosa avviene che si tratti di temi legati all’identità personale, così come al suo riconoscimento e alla sua tutela, rispetto a ciò che è invece avvertito come il rischio – sempre incombente – di una loro distruzione da parte delle istituzioni (ecclesiali, amministrative, sociali, politiche e civili). La questione in sé rimanda ad un orizzonte impegnativo che, da un lato, dovrebbe evidenziare come l’emancipazione delle persone, in quanto cittadini, implichi il riconoscimento dei loro diritti inalienabili. Tali poiché non possono essere messi in discussione in alcun modo da un qualche organismo (Stato, amministrazioni, società, comunità, gruppo così come quant’altro) sovraordinato rispetto alla personalità individuale. Quest’ultimo, peraltro, dovrebbe esistere solo per garantire l’attuazione dei diritti medesimi. Dall’altro lato, tuttavia, rischia di alimentare, nel nome stesso degli interessi individuali – tanto più in una età individualista quale quella nella quale stiamo vivendo – la diffidenza contro qualsiasi forma di mediazione collettiva. Quest’ultima deprecata a priori poiché intesa come negazione assoluta degli interessi e dell’identità personale. Qualcuno, al riguardo, ricorda ancora lo slogan: «uno vale uno»? Le due cose (emancipazione interrotta e sfiducia aprioristica verso qualsiasi forma di organizzazione collettiva) – a ben pensarci – si tengono insieme. Dei loro punti di contatto se ne può avere riscontro, per l’appunto, quando si entra nel merito di temi molto impegnativi, a partire dall’universo delle violenze e delle violazioni contro gli indifesi per eccellenza: tra questi, i minori e, soprattutto, l’infanzia. La questione è esplosa negli ultimi decenni, accompagnandosi ad altri due processi paralleli: l’incremento della sensibilità verso i diritti dei più fragili nelle nostre società ma anche la percezione, sempre più spesso diffusa, di essere noi stessi al pari di minori indifesi, quanto meno dinanzi ai processi storici che ci accompagnano e all’azione di istituzioni che pensiamo ci soverchino. Due condizioni tanto più accentuate dal momento in cui si è assunto il dispositivo della comunicazione populistica, che ricalca quello, falsamente rassicurante, della «corda e del sapone»: ovvero, identifica un colpevole purchessia e “impiccalo più in alto; saremo tutti più contenti”. I processi mediatici di questi anni si inscrivono in questa logica ferina. Non si tratta esclusivamente di gratuita brutalità ma di un rito antropologico, con il quale, eliminando un oggetto sacrificale di circostanza, si pensa di potere ristabilire l’ordine, altrimenti interrotto, nella comunità dei sodali e solidali. Qualcosa, per capirci, che funziona bene con l’antisemitismo, vero e proprio prototipo polifunzionale dell’applicazione sociale del pregiudizio. In questi casi, l’oggetto di principio, in realtà, non è MAI la vittima (e ancora meno la sua tutela) bensì la ricerca di un capro espiatorio contro il quale esercitarsi collettivamente, per convogliare l’angoscia e farla decantare. La vicenda di Bibbiano, e dell’infausto operato di un guru peraltro molto accreditato dalle istituzioni (ed adesso condannato, ma comunque convinto di avere la ragione dalla sua parte, a prescindere), così come di una Onlus e di operatori che non hanno rispettato i protocolli di accertamento più elementari, la dice lunga. Si è fatto dire a dei bambini quello che si voleva sentire affermare. A prescindere da qualsiasi altro riscontro. Tale vicenda, per l’appunto, al netto della sua stessa cronaca è paradigmatica, in quanto chiama in causa un’opinione pubblica non solo facilmente suggestionabile – e come tale pronta ad istruire immediatamente processi sommari, vissuti con libidinoso compiacimento, al pari di quanto già avveniva ai tempi della caccia alle streghe (anch’essa allora motivata dalla necessità di salvare il corpo sociale dalle “perversioni” dei “cattivi”) – bensì anche pubbliche amministrazioni incapaci, poiché per nulla emancipate dal becero “luogo-comunismo” che trionfa in un’età di populismo mediatizzato; ma anche, e soprattutto, il bisogno di dare un volto alla paura che da sempre accompagna il mutamento, identificandola, in questo caso a Bibbiano, con le presunte offese contro dei minori. Istituendo infine una narrazione pubblica (“li si sono fatte cose inenarrabili”, a prescindere degli eventi in quanto tali) che resiste anche ai ripetuti riscontri di fatto e alle smentite delle autorità giudiziarie, chiamate ad indagare e a sciogliere la matassa delle infinite contraddizioni e falsificazioni. Quello delle prevaricazioni sui minori, a partire dalle violenze sessuali, che ledono quindi il loro corpo e la loro dignità, è peraltro un tema sul quale ci siamo già soffermati in altre comunicazioni. Fondamentale poiché ritorna sempre e comunque non solo come fatto in sé ma soprattutto in quanto simbolizzazione di molti altri significati. Sotto un indice che potrebbe così essere riassunto: non si cerca la “verità” ma una verità comunque sia, tale poiché in grado di sedare l’ansia collettiva, trovando qualcosa o qualcuno contro i quali scagliarsi. L’idea che una comunità (locale, sociale, religiosa o cos’altro) sia minacciata e, in quanto tale, debba raccogliersi intorno ad un rito espiatorio – in genere quello del sacrificio di ciò o di colui che sono ritenuti causa del male – costituisce la riparazione del senso della rottura di un ordine che il gruppo stesso avverte come altrimenti insolubile e irrisolvibile. È fin troppo facile, per chi da sempre si adopera nei tentativi di comprendere le derive della razionalità collettiva, cogliere i molti nessi tra temi antisemitici e l’uso incontrollato dell’accusa di pedofilia. Nell’uno e nell’altro caso, peraltro, ci sarà sempre chi controbatterà, dinanzi alle repliche dei fatti, che “comunque qualcosa di vero c’era pure”. Un’attinenza tra pregiudizi antiebraici e false violazioni contro l’infanzia non sussiste in alcun modo nel caso di Bibbiano. Quest’ultima vicenda, tuttavia, richiama comunque un universo di simbolismi ricorrenti, che rimandano al sospetto come criterio per interpretare le relazioni sociali. E lo schema antisemitico, anche in assenza di ebrei (e di odio concreto contro di essi), è lì bello pronto per essere applicato come codice di falsificazione della realtà. Si tratta soprattutto del delirio per cui gli «ebrei» avrebbero approfittato del sangue dei cristiani, alimentandosene nelle pasque ebraiche. Un fantasma che rimanda – nel suo codice profondo – alla perversione della profanazione del corpo degli infanti. Mentre il cristianesimo si è spesso descritto come un fanciullo che affronta il “nuovo” mondo, con legittima ingenuità, l’ebraismo è stato riprodotto come espressione della volontà di un vecchio libidinoso, sporco e lussurioso, che tenta di possederlo, di fatto divorandolo, per distruggerne la sua identità eretica e la sua carica rivoluzionaria. Soprattutto, per sporcarne l’innocenza e la purezza, raffigurate come proiezione della dimensione divina. Il culto di San Simonino di Trento è l’effigie di questa costruzione mentale, che si riproduce nel tempo. La lotta tra nuovo e vecchio Testamento, laddove il primo rappresenterebbe il superamento del secondo, è stata spesso tradotta nei termini di una contrapposizione tra ciò che sopravanza e quanto, invece, non vorrebbe lasciare il campo all’inedito e al nuovo. Una sorta di antitesi titanica tra il candore fanciullesco di quanto sopravviene e la laidità senile di un culto senza futuro. Cosa quindi c’entra tutto ciò con Bibbiano, ossia il ricorso al capro espiatorio, la facilità con la quale si mettono etichette? Molto poco, se il metro di misura è la storia e la sua dimensione cronologica, ragionata sui tempi lunghi, dilatati. Molto se si ragiona sugli schemi mentali che – invece – tendono a riprodursi, anche in epoche tra di loro molto diverse, con una persistenza che rimane sorprendente. Poiché se il sospetto diventa la matrice di molte relazioni sociali, allora ci sarà sempre la necessità di trovare un qualche “colpevole” di una qualsiasi cosa. Non importa quale, per l’uno e per l’altra.

Claudio Vercelli