Keret e la forza dell’immaginazione

L’immaginazione è un potente strumento per confrontarsi con la realtà. Lo è stata per il padre di Etgar Keret. “Mio padre sopravvisse alla Shoah rimanendo nascosto con i suoi genitori in un buco per seicento giorni. Io non capivo come fosse possibile non impazzire in uno spazio così ristretto. E lui mi spiegò la sua strada: immaginava che il mondo fuori fosse ogni giorno un po’ diverso dal precedente. Per esempio che i nazisti andassero sì a caccia di ebrei, ma per poi portargli le caramelle; o che in quel giorno i nazisti non esistevano; o che avevano come bersaglio solo le ragazze con i capelli rossi. E così ho capito il potere dell’immaginazione: può ingrandire lo spazio attorno a te, ridefinirlo, e tu puoi non esserne prigioniero”. Una lezione molto utile in particolare nel momento del lockdown, ha spiegato Keret al folto pubblico presente all’incontro milanese organizzato dalla Fondazione Cdec nel quadro di Bookcity Milano e della Rassegna Nuovo Cinema Ebraico e Israeliano (20-24 novembre). Un’occasione per dialogare con Sara Ferrari, curatrice della Rassegna, proprio sul significato dell’immaginazione nei libri e nei film. E presentare il suo cortometraggio Outside, creato lo scorso anno assieme alla coreografa Inbal Pinto. “Siamo molto contenti di avere un ospite così importante e di questa collaborazione”, ha evidenziato in apertura il presidente del Cdec Giorgio Sacerdoti, richiamando il programma della Rassegna. Programma che prosegue oggi (a partire dalle 17.00 al Cineteca Milano MEET) con il lungometraggio Muranow, incentrato sulle vicende del quartiere divenuto il ghetto di Varsavia e su cui dialogheranno lo scrittore Wlodek Goldkorn e l’architetto Guido Morpurgo. E poi ci sarà la presentazione del progetto “Mi Ricordo. I film di famiglia della comunità ebraica” a cura di Daniela Scala, Elena Testa e Giorgio Barba Navaretti.
Intrecci dunque di identità ebraica sul grande schermo. Un tema parte anche del dialogo tra Ferrari e Keret, in particolare sul fronte della scrittura. A domanda su quale ruolo abbiano identità ebraica e israeliana nella sua scrittura, l’autore ha spiegato: “in generale gli scrittori israeliani, da Amos Oz a David Grossman, hanno una narrativa epica, che si fa racconto di un’intera nazione. Gli scrittori della Diaspora come Singer o Sholem invece raccontano la quotidianità con i suoi fallimenti, le sue frustrazioni. Non cercano di ritrarre una nazione. E lo fanno tra l’altro in yiddish, una lingua colloquiale, a differenza dell’ebraico, lingua della Bibbia. Ecco io cerco di scrivere in ebraico come se fosse yiddish: senza elevare il senso della realtà, senza staccarmi da essa, ma rimanendo su un livello mondano, dove si può facilmente far entrare lo humor”.
Molto apprezzata dal pubblico, a giudicare dal grande applauso, poi la sua riflessione sul ruolo della letteratura e degli autori oggi. “Sono sempre restio a parlare del ruolo dello scrittore. Scrivere è la celebrazione della tua individualità. Gli scrittori non sono membri di una stessa gilda. Non c’è un codice che ti dice come fare il tuo lavoro. Sei tu arbitro e creatore del tuo universo, per cui ognuno può parlare per sé e non in quanto rappresentante di una categoria”. Detto questo, secondo Keret ad aver cambiato le carte in tavola per la letteratura non è stata la pandemia, ma Netflix. “Fino a quindici anni fa, ci si incontrava e una domanda normale da porre era che libro stai leggendo. Oggi questa stessa domanda non unisce. Leggere non unisce”. Le piattaforme di streaming invece sì. Tutti si scambiano consigli e opinioni in merito. “È un cambio culturale, nonché una lezione di umiltà per noi autori. Troppo spesso la letteratura è stata presentata come un’alternativa laica alla religione”. E ora, la riflessione dello scrittore israeliano, questa posizione da contraltare – o presunto tale – è stata ridimensionata. “Ora forse riusciremo a dialogare senza prosopopea con quei lettori che sono rimasti. A condividere storie e dolori, cose che ci interessano”.