Storie di Libia
Eliau Lillo Naman

Eliau Lillo Naman, ebreo libico, fuggito dalla Libia insieme ai suoi famigliari nel giugno del 1967. L’intervista si svolge nel Tempio fondato da suo padre, da cui prende il nome, a Piazza Bologna. Al loro arrivo in Italia nel 1967 l’appartamento che avevano acquistato con il tempo e tanti sacrifici fu infatti trasformato in sinagoga. Qui la comunità ebraica libica ha preservato e insegnato alle nuove generazioni la tradizione religiosa osservata durante la loro permanenza a Tripoli. Ci sono gli arredi, gli oggetti sacri e le suppellettili tradizionali per le preghiere, per lo Shabbat. In sinagoga, oltre alle preghiere, vengono praticate l’elemosina, le preghiere e i voti (che poi, realizzati, sono testimoniati). È presente una vasta biblioteca per lo studio della religione e per istruire i futuri rabbini. Viene fatta la circoncisione, con la sedia tradizionale per questa pratica. Alcune sale accolgono gli studenti universitari israeliani. Lillo per l’aiuto offerto a questi giovani viene chiamato “l’uomo diventato un raggio di sole per tutti”. Orgogliosamente fa visitare il loro luogo sacro a chi scrive, mostrando tutto ciò che sono riusciti a costruire dal settembre 1967, grazie a suo padre.
Molti ebrei libici dopo la Guerra dei Sei Giorni, arrivati in Italia, si sono concentrati nei pressi di Piazza Bologna. Come la maggior parte dei profughi ebrei, anche Lillo racconta di non conservare un buon ricordo della Libia. Per quanto essi si sforzassero di avere buoni rapporti con la comunità araba venivano continuamente osteggiati, minacciati, insultati e molestati. La sera avevano timore di uscire, perché trovavano sempre qualcuno che li aspettava per picchiarli. Era pericoloso uscire con una ragazza perché molto probabilmente l’avrebbero infastidita. Un giorno si era recato in un negozio chiedendo la cortesia di poter pesare alcune cose sulla sua bilancia, ma il padrone arabo del negozio gliela aveva negata. Allora Lillo fece un gesto con la mano sul mento, che significava “verrà il giorno che avrai bisogno tu”. L’arabo fraintese questo gesto e lo interpretò come “verrà il giorno in cui Israele occuperà tutti i paesi arabi” e per la rabbia gli diede uno schiaffo talmente violento che ancora ne ricorda il bruciore. Agli ebrei era proibito passeggiare al centro e non solo. Ancora ricorda un episodio scioccante che accadde quando lui aveva 18 anni e portava sulle spalle il suo fratellino di sei, per fargli prendere un po’ d’aria fuori dal loro palazzo. Incontrarono un arabo ubriaco che aveva la fama di picchiare ogni ebreo che incontrava. L’uomo gli si avvicinò con una bottiglia e stava per spaccargliela sulla testa. Fortunatamente in quel momento arrivò un signore maltese che riuscì a fermarlo.
La famiglia conduceva una vita basata sulle tradizioni religiose ebraiche, mangiando kasher, osservando le regole delle Mizvoth, le feste le tradizioni e andando al Tempio. L’uscita forzata dalla Libia fu abbastanza traumatica, ma nello stesso tempo colma di eventi soprannaturali. Quando nel 1967 scoppiò la guerra dei Sei giorni, Lillo si trovava nel negozio di famiglia e stava misurando dei cavi d’acciaio. Entrò trafelata la zia, che con voce agitata gli disse: “È scoppiata la guerra, chiudi tutto di corsa”.
Si precipitò dunque a prendere il fratellino David, che frequentava la prima elementare dalle suore. Uscito dalla scuola un arabo gli si avvicinò facendogli segno di sgozzarlo e allora chiamò un suo fratello affinché lo venisse a prendere dietro all’istituto. Giunse anche suo padre e un loro conoscente arabo, vedendoli, disse loro di andare di corsa a casa che era pericoloso. Erano quasi giunti alla loro abitazione quando videro davanti ad essa una manifestazione di persone che urlavano “Morte agli ebrei”. Incredibilmente, lui, suo padre, i suoi fratelli e un ebreo che lavorava con loro riuscirono a passare tra la folla, come se fossero diventati invisibili riuscendo così a entrare in casa. Erano sicuri che l’intervento di Dio li avesse salvati. Per circa due mesi non uscirono dall’abitazione, per la paura di essere uccisi. Per fortuna alcuni amici italiani e arabi portarono loro da mangiare tutti i giorni. Al buon cuore degli arabi Lillo non credeva molto. Era sicuro che alcuni di loro, con la scusa di portare del cibo, guardassero all’interno per vedere se c’era qualcosa da prendere. Alla fine della guerra dei Sei Giorni decise di tornare in quel negozio e quell’arabo che lo aveva schiaffeggiato lo aiutò, lo andò a prendere a casa per portarlo in negozio e poi di nuovo a casa: lo fece per molti giorni. Poi si scoprì che il libico voleva il loro negozio per ingrandire il suo, dimostrando che la sua cortesia era solo interessamento: ma Lillo non glielo diede. Arrivò purtroppo il giorno della partenza forzata. Venne un pullman a prenderli per portarli all’aeroporto con la scorta della polizia. Erano rimasti in quattro, lui i suoi genitori e un fratello, mentre gli altri membri della famiglia erano già partiti per l’Italia. Suo padre pianse al pensiero di lasciare tutto ciò che aveva costruito con tanti sacrifici ma disse rassegnato: “Questa è la vita”. Almeno quella l’avevano salvata. Una volta a Roma non si persero d’animo, presero un appartamento con il sogno di trasformarlo in sinagoga affinché la comunità ebraica libica potesse avere un punto di riferimento, un luogo dove avrebbero potuto trasmettere ai figli e ai nipoti a venire la tradizione. Di certo l’esperienza vissuta a Tripoli era stata dolorosa perché non erano indipendenti, liberi di andare dove volevano, di uscire con una ragazza, sempre con la paura di essere uccisi, molestati, sbeffeggiati. È vero che a Tripoli c’era lavoro e si guadagnava bene, c’erano le compagnie petrolifere, il mare, ma in realtà erano sempre reclusi in casa e non esisteva una vera vita sociale. A Roma si rimboccarono le maniche grazie alla capacità dell’ebreo “di rinascere dalle sue ceneri”.
Si sono integrati conservando le loro tradizioni religiose ebraiche, hanno riconquistato il benessere per la loro capacità di reinventarsi. Quando gli fu possibile tornare in Libia, lui e suo padre, non lo fecero per restare, ma per vendere il negozio e tutti i loro possedimenti che non erano stati ancora confiscati. E con quel poco tornarono in Italia, cosa che non fecero altre famiglie che speravano di ritornare a vivere lì, ma che così persero tutto. Gli ebrei libici hanno fatto tanto a Roma oltre alla sinagoga: anche scuole, negozi e molto altro. Per quanto riguarda i danni di guerra, non tutti gli ebrei hanno lottato per essere risarciti. Anche se, ricorda Lillo, costituirono un’associazione che si doveva occupare di fare causa alla Libia, allo Stato italiano e anche a quello inglese. Ma senza molta convinzione, perché molti non credevano e non credono ancora che riusciranno ad ottenere nulla. Certo sarebbe bello riuscire ad avere un risarcimento: un riconoscimento per le sofferenze, le persecuzioni e la confisca dei beni subiti, per riuscire a preservare i monumenti che testimoniano la presenza degli ebrei libici compresi i ricordi di tutti gli ebrei morti tra la seconda guerra mondiale, il ’67 e altre persecuzioni. Se cambiasse forse la politica mondiale e anche quella della Libia si potrebbero stanziare fondi per preservare e costruire monumenti, anche se molto probabilmente chi odia Israele li deturperebbe con svastiche come succede in alcuni cimiteri ebraici. Lillo riflette che D.O ha voluto portare fuori dalla Libia gli ebrei. Sono molto poche le persone che provano nostalgia per quel paese, “perché l’ebreo in verità si sente a casa solo in Israele”. Così era per lui e anche per suo padre, che lavorò molto per il sionismo. In segreto custodiva i bagagli di coloro che voleva scappare in Israele. Era un vero combattente, una volta per salvare un ebreo dal linciaggio di un gruppo di arabi sollevò e scagliò sulla folla delle pesantissime panche di legno. In Italia, oltre che in Israele, sono stati veramente per la prima volta liberi. La sua famiglia ha avuto la possibilità di costruire una sinagoga che in Libia non avrebbero potuto edificare. Qui possono insegnare ai figli degli ebrei libici e anche alle altre “nazioni” cosa significa la tradizione ebraica, la generosità, l’aiutare i bisognosi, farli sentire a casa e ad essere liberi senza paura. Lillo è orgoglioso del Tempio testimonianza concreta della forza di superare la sofferenza dei suoi genitori, che hanno avuto la forza di ricominciare e di ricostruire un futuro. Scappando dalla Libia, finalmente liberi dal peso di essere trattati come cittadini di seconda categoria.

Clicca qui per rivedere l’intervista

(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano