La coerenza non è virtù

La scrittrice Sally Rooney ha deciso di pubblicare i suoi romanzi in Cina dopo essere assurta agli onori della cronaca non solo per le sue riconosciute doti letterarie, ma anche per la sua decisione, per via del suo boicottaggio allo Stato ebraico, di non far pubblicare in Israele la sua ultima fatica letteraria (Beautiful world, where are you).
Sennonché, nei riguardi della Cina, Amnesty International, in un rapporto di 160 pagine, intitolato “Cina: ‘Come nemici in guerra’. Internamento di massa, tortura e persecuzione contro i musulmani dello Xinjiang”, ha denunciato che “gli uiguri, i kazachi e altre minoranze etniche prevalentemente musulmane subiscono da parte dello stato cinese imprigionamenti di massa, torture e persecuzioni che si configurano come crimini contro l’umanità”. Qui le vittime sono musulmane. Questo la Rooney lo sa perché, oltre a saper scrivere, è altamente probabile che sappia pure leggere.
Ora, Israele ha nella sua coalizione di governo un partito arabo che potremmo pure considerare pressocché estremista: se lo Stato ebraico intendeva imporre l’apartheid, bisogna ammettere o che non è vero oppure che è governato da dissociati. Temo che la prima opzione sia quella giusta: semplicemente, non è vero, disquisire di apartheid è un fuor d’opera.
La Rooney non protegge i musulmani (eppure sarebbe stata una scelta sacrosanta) ma sé stessa, perché essere contro Israele non le porta alcun nocumento, né economico né politico. Israele ha subito continue aggressioni, in seguito alle quali ha occupato dei territori, restituiti sui tavoli della pace e, se l’OLP è in Cisgiordania (e prima a Gaza) è soltanto perché Israele aveva contattato l’OLP per avviare un processo di pace. Se la pace non è stata raggiunta, è colpa di Israele o dell’OLP? Parliamone, ma è difficile sostenere che Itzhak Rabin, Shimon Peres, Ehud Barak o Ehud Olmert non volessero la pace. La campagna per l’abbandono unilaterale senza un trattato di pace, conduce alla guerra, e l’abbiamo visto nel caso di Gaza. Se si demonizza Israele chiedendo l’abbandono unilaterale, per quale ragione la controparte dovrebbe volere la pace? Il boicottaggio è obiettivamente un’arma di guerra, e fatico a pensare che sia così difficile prenderne atto.
Non posso fare un processo al profondo inconscio, ma l’Es freudiano non può che farla da padrone nell’ossessione anti israeliana, che in qualche pagina di un libro di testo che ho trovato su FB viene sostituita con la parola ‘ebrei’, perché a volte i freni inibitori, specie nei meno consapevoli, finiscono per essere vittime di un banalissimo ‘brake fading’. Perché non andare a vedere cosa dice Amnesty di Israele, della Cisgiordania, della Cina, e di altri Stati? Una buona ragione per non farlo è che l’accanimento contro Israele finirebbe per parlare più di chi lo pratica che del suo bersaglio. Non abbiamo visto, anche di recente, che molte campagne salvifiche tendono anzitutto a salvare se stessi?
Nel Medioevo. scrive nel 2018 una brillante studiosa, vi era una “percezione degli ebrei come singolo gruppo unificato, in linea con la pratica giuridica medievale della responsabilità collettiva”; chiamare in causa un ebreo singolo oppure un gruppo singolo, per sostenere che non vi è livore anti ebraico, è come chiamare a testimoniare lo Zio Tom per dire che tutto va bene. Sarebbe un atteggiamento contraddittorio, se non fosse guidato dal pensiero inconscio di un popolo reietto, la cui reiezione trova conferma nell’esistenza di una minoranza (solo) paradossalmente ‘buona’.
E l’Italia? Da noi qualche genio sostiene che il boicottaggio di Israele non è antisemita perché lo praticano anche alcuni ebrei ed alcuni israeliani, attingendo così all’espediente razzista dell’argomento etnico. A nessuno passerebbe per la mente di lodare Stalin o Mussolini perché molti russi o italiani li appoggiavano. Con gli ebrei si agisce diversamente, perché si ritiene che le loro azioni coinvolgano tutti. Cos’è questo se non un atteggiamento discriminatorio? Volgerlo contro Israele, consente al Super Io di risolvere i problemi dell’ES: un misero compromesso nell’ontologia, un brillante compromesso negli esiti.

Emanuele Calò, giurista