Ticketless – Il Male annacquato
“Giochiamo al 1943 per illuderci di dare ancora un senso al nostro tempo”, così titola il Foglio del 20 novembre scorso. Un bellissimo articolo di Guido Vitiello, che si conclude con un elogio di Liliana Segre. Guerrieri, giochiamo a fare la guerra? La certificazione verde e la stella gialla. È la capitolazione della storia all’isteria, per adoperare la formula di Alvin H. Rosenfeld, applicata alla poetessa Sylvia Plath, né ebrea né deportata che aveva proiettato le sue private nevrosi facendo indossare al suo io una divisa da superstite immaginario. Quello che si vede in questi giorni, l’orribile episodio di Novara, l’uso disinvolto dei simboli della deportazione nelle manifestazioni no vax è il segno ultimo di una deriva che ha radici lontane. Conviene risalire a queste radici, per evitare di rimanere sul piano astratto e scivoloso della pura indignazione.
Hannah Arendt ci ha spiegato che mentre la prima guerra mondiale ha lasciato in eredità il tema della Morte, la seconda ci mette di fronte alla questione del Male. Analizzando questo scritto della Arendt un grande storico, Tony Judt, in un libro che non per caso s’intitola Quando i fatti ci cambiano, ha scritto: “Stiamo perdendo la capacità di distinguere le comuni debolezze, il pregiudizio, l’opportunismo, la demagogia, il fanatismo – dal vero male. Abbiamo perso di vista che cosa, nel credo politico di estrema sinistra e di estrema destra del ventesimo secolo, fosse tanto seducente, tanto normale, tanto moderno e quindi veramente diabolico. In fondo, se vediamo il male ovunque, come possiamo riuscire a riconoscere quello vero? Sessant’anni fa Hannah Arendt temeva che non ne avremmo mai capito il senso. Oggi parliamo continuamente del ‘male’, ma con il medesimo risultato: ne abbiamo annacquato il significato”.
In queste ultime settimane mi è capitato di ritornare su questo problema in molte presentazioni del mio libro sulle memorie “da decontaminare”: le domande dei lettori ruotano sempre su questo punto, reso più attuale da quanto sta accadendo nelle piazze d’Italia, nel dibattito infuocato sul green pass e sui vaccini, negli slogan che si ascoltano nelle manifestazioni e, spiace dirlo, nelle argomentazioni di intellettuali come Massimo Cacciari o Giorgio Agamben, i quali, eludono il nodo del Male.
Anche chi per mestiere fa lo storico dovrebbe ripensare alle origini lontane di questo problema. Vitiello, con sottile perfidia, ci rammenta quanto dicevamo solo un anno fa e riporta da un articolo di Antonio Scurati i primi segnali partigiani riscontrati nei baristi di Milano: “Guardali nella loro dignitosa, caparbia laboriosità, allineare sotto le cupole di vetro le brioche vegane con la stessa cura con cui i loro padri e nonni coltivarono patate negli orti di guerra”. Il paragone è lo strumento propedeutico necessario a ogni indagine sul passato; si parte sempre dal confronto fra esperienze diverse per ripensare il passato o ridimensionarlo: la conoscenza di quanto è accaduto, per la maturazione di ciascuno di noi e dunque anche per la difesa delle libere istituzioni è un elemento imprescindibile per il lavoro dello storico. Tuttavia, la semplice registrazione di singoli eventi non è di nessuna utilità se disgiunta dalla fatica di illuminare i contesti, indispensabile premessa se si vuole comprendere per intero il significato di un avvenimento e non confonderlo con un altro avvenimento che gli assomiglia, ma non è propriamente sovrapponibile ad esso.
Tanta ingenuità l’abbiamo riscontrata e ancora la riscontriamo nel raffronto tra le immense tragedie del XX secolo: la similitudine fra le vittime dei Lager e quelle dei Gulag ha mietuto vittime illustri, ancora oggi è un ingombro che atterrisce gli storici contemporaneisti e di recente ha costretto a spericolati equilibrismi il parlamento di Bruxelles in una dichiarazione ufficiale che ha fatto molto discutere; altrettanta ingenuità s’è vista, in scala minore, tra chi ha cercato denominatori comuni fra la Shoah e le foibe.
Tuttavia, l’annacquamento del problema del Male, denunciato da Judt, non è esclusivo appannaggio delle destre europee. La crisi è iniziata molti anni fa e credo sia giunta l’ora di ricostruirne la storia. Se avessi tempo e la cosa non mi amareggiasse troppo mi metterei io stesso al lavoro.
Qualche esempio sparso. L’annacquamento lo si è visto all’opera nell’omologare, sotto l’etichetta del cattivo italiano, il comportamento dei nazifascisti e, per esempio, le violenze commesse dallo Stato italiano post-unitario contro il brigantaggio oppure il confronto fra le camere a gas hitleriane e i gas adoperati da Graziani in Africa; infine, più di recente, fra i decreti-sicurezza o, prima, la legge Bossi-Fini e la legislazione razziale del 1938. Primo Levi aveva denunciato con forza chi comparava il carcere (o la fabbrica) al Lager. In una bella biografia di Bianca Guidetti Serra, commemorata la scorsa settimana al Polo del Novecento a Torino, si riporta una breve corrispondenza fra Levi e Sante Notarnicola, protagonista di innumerevoli delitti e rapine, detenuto a lungo in carcere che cercò invano nell’autore di Se questo è un uomo una sponda. Il disagio che provocano paragoni improvvisati lo si osserva in questi giorni, rigenerato, in dimensioni più elevate, nei grotteschi confronti fra la discriminazione razziale e l’attuale politica sanitaria e la lotta contro il virus. La questione della memoria – delle politiche necessarie per conservarla – temo sia stata male impostata in Italia, fin dall’inizio. A prevalere è stata una memoria pubblica, preda della polemica politica, poco critica, indirizzata a confrontare come se fossero la stessa cosa scempi e delitti compiuti in contesti diversi.
Tutti questi errori sono legati fra loro. Il cammino degli uomini è saturo di episodi orrendi, di violenze, di ingiustizie, di libertà violate: fare di ogni erba un fascio non giova però a nessuno e soprattutto ci allontana dal nostro dovere di cittadini nati dopo la Shoah, chiamati tutti a ripensare con serietà e rigore la natura del Male senza annacquarlo nel mare dell’indefinito. Così facendo, sempre meno in futuro si distinguerà se un’ingiustizia, un diritto calpestato, un episodio di particolare efferatezza fanno parte di una semplice contingenza, dipendano da una guerra civile, da una crisi economica oppure corrispondano organicamente alla natura di un sistema di potere come è stato il nazionalsocialismo, che della violenza ha fatto la sua regola.
Alberto Cavaglion
(24 novembre 2021)