Diverso e diseguale

Come non esiste nessuna par condicio nella distribuzione del male (“un pezzo a te, uno a me e, in fondo, tutti incolpevoli poiché nello stesso modo responsabili di qualcosa per cui fingere una qualche fittizia resipiscenza”), del pari non si danno società, gruppi, comunità che siano esenti a priori da un qualche pregiudizio. Anche tra quanti ne hanno invece subito, nel passato più o meno recente, gli effetti devastanti, pagandone quindi uno scotto del tutto ingiusto in quanto immotivato. Non ci si immunizza per sempre dalle false credenze quand’anche se ne siano sopportati i disastrosi contraccolpi su se stessi. La violenza subita allerta soprattutto della sua pericolosità per se medesimi, non della necessità di una solidarietà verso un ipotetico “diverso” a prescindere da come lo percepiamo. Ogni epoca, quindi, si incarica di giocare tra vittime e carnefici: cambiano gli attori in campo, così come le partiture, non il ferino gioco tra gatto e topo. Le ragioni della superstizione sociale (il pregiudizio è questo, ossia una forma secolarizzata, comunemente condivisa, di preconcetto morale – come tale rivestito di una falsa indiscutibilità – verso un’idea che si nutre degli “altri da noi”) riposano nel bisogno di avere un oggetto contro il quale scagliare la propria angoscia, dandogli delle plausibili sembianze fisiche. Pertanto facilmente individuabili. Che si tratti di persone – classificate quindi come appartenenti ad un gruppo, e in quanto tali avversate, a prescindere dalla loro concreta soggettività – piuttosto che di situazioni, relazioni, cose. Ovvero, di eventi materiali. Detto questo, un tale incipit occorre esclusivamente per affermare che la violenza d’avversione – ciò che oggi conosciamo anche con l’anodina e discutibile formula di «reati d’odio» -, al pari del ricorso prevaricatorio alla forza fisica, non è mai prerogativa esclusiva di certuni. Non per questo, tuttavia, appartiene a tutti. In quanto si manifesta soprattutto quando il gruppo che la sprigiona necessiti del bisogno di trovare un capro espiatorio. Le ragioni di una tale condotta, quindi, non vanno quasi mai cercate in ciò che è fatto bersaglio di contrarietà, il target prescelto, bensì nelle logiche interne a coloro che condividono l’avversione. Trasformandola in elemento di sodalizio e reciprocità. Non si capisce l’antisemitismo se si studiano solamente gli ebrei mentre invece occorre comprendere quali siano le dinamiche che rendono necessario, per certuni, il pregiudizio antisemita. Laddove nel rifiuto di un’immagine capovolta degli “ebrei”, quei certuni riescono invece a costruire una crescente, e quindi maggiore, considerazione di se stessi. L’odio verso un “nemico” tanto immaginato quanto pervasivo, è da sempre un eccellente collante nelle dinamiche di gruppo, consolidando l’Ego collettivo, che non si corrobora quasi mai dei propri aspetti positivi (“io sono, noi siamo”) ma di quelli avversativi (“io non sono, noi siamo, quindi esistiamo”). Ed è proprio per questo che il pregiudizio transita, in certi casi, anche nei gruppi un tempo altrimenti bersagliati e vessati essi stessi. Ciò avviene quando questi raccolgano una diversa considerazione sociale, che permette ai loro membri di transitare dalla condizione di reietti della storia a quella di oggetto dell’accettazione altrui. Tema assai delicato, quest’ultimo, in quanto ognuno di noi – quando si consideri ispirato da una logica d’integrazione – si sente chiamato in causa come alfiere della giustizia collettiva. Non riconoscendosi limiti etici. Come tale, intento ad aiutare i più sfavoriti, offrendo loro un supplemento di considerazione che, molto spesso, esula dall’effettiva comprensione delle ragioni per cui questi sono stati emarginati, privilegiando semmai l’investimento affettivo sulla loro immagine di vittime della storia. Alle quali, in fondo, li si vuole inchiodare una volta per sempre. È peraltro spesso più facile amare le vittime che accettare i vincitori. Non esistono società da intendersi come una mera sommatoria di individui bensì collettività che sono un mosaico mutevole di sodalizi, identità e consorzi umani. Quindi, di catenacci d’interessi. Il pregiudizio opera in un tale contesto non come segno dell’arretratezza di coloro che lo fanno proprio bensì in quanto strumento di selezione e di esclusione, a danno di quei gruppi, così come delle persone, che vengono estromessi dal dividendo degli interessi e delle ricchezze. La possibilità di accedere alla sfera del potere (in sé oggi assai articolata e multiforme, ben più che nel passato), in tutte le sue varianti, segna quindi il passaggio dalla minorità a quella maggiorità, che si rinvigorisce dichiarando soprattutto l’inaccettabilità di quanti sono invece definiti come socialmente e civilmente ripugnanti. Qualcosa del tipo: “non ti do nulla poiché non te lo meriti”; così facendo, tuttavia, nascondo il fatto che – invece – la mia indisponibilità nasce non dal riscontro che tu non abbia effettivi diritti da rivendicare bensì dalla mia volontà di non riconoscerteli, poiché intendo piegarli e avvantaggiamene a mio esclusivo beneficio. Un’ultima considerazione di fondo, da gettare lì, in attesa di ulteriori riflessioni di merito: l’avversione verso colui o ciò che sono avvertiti come minacciosi, in quanto capaci di mettere in discussione il nostro orizzonte di fallaci certezze e di deboli speranze, non deriva tanto dall’incomprensione delle diversità in quanto tali bensì dall’angoscia per la diseguaglianza di cui avvertiamo come peso su noi stessi. Non solo economica, va da sé, ma culturale, politica e civile. Diseguaglianza di risorse, di opportunità, di possibilità, di potere. Una sorta di sublimazione della paura sta quindi da sempre all’interno del dispositivo razzista: “ti odio non per ciò che sei – fatto di cui peraltro mi disinteresso completamente, non avendo idea di te che non sia quello stereotipata dei cliché di senso comune – ma per l’immagine di me che vedo riflessa in te stesso”. Si odia non tanto ciò che non si capisce ma quanto si ritiene di potere comprendere come segno della negatività che continua a manifestarsi in ognuno di noi. Coloro che sono ascesi da pochissime generazioni ad uno status sociale relativamente accettabile, dal momento in cui si sentano minacciati in quanto hanno da poco raggiunto, sanno allora rivelarsi implacabili al riguardo. Poiché da che mondo è mondo, si teme non tanto quello che non si riesce a raggiungere ma ciò che si ritiene di potere perdere, dopo averlo faticosamente agguantato, correndo contro la durezza dell’esistenza.

Claudio Vercelli

(28 novembre 2021)