Oltremare – Chiusura
Per la serie delle cose che si sentono di sfuggita alla radio mentre si sta facendo qualcos’altro, e poi ci si domanda se si è sentito bene: il rabbino capo del Sud Africa afferma che tutti gli ebrei del mondo sono una unica comunità, e quindi Israele dovrebbe far entrare anche adesso qualunque ebreo, Covid o non Covid.
La questione è delicata, anche perché pur avendo poi trovato traccia di questa affermazione su un articolo del Jerusalem Post non mi è chiaro il legame fra il fatto di essere ebrei e lo spostarsi liberamente fra paesi durante una pandemia, che se ne infischia bellamente, la pandemia, delle appartenenze religiose, culturali e perfino della pila di passaporti che il candidato viaggiatore può avere in tasca. A lei, la pandemia, interessa solo una cosa: continuare ad esistere. Per questo muta, cambia forma e trova continuamente modi nuovi per superare le barriere che noi sapiens sapiens cerchiamo di mettere sul suo cammino: distanziamento sociale, mascherine, vaccini, richiami di vaccini e quando necessario chiusura dei confini degli stati. Quindi dire che una certa popolazione dovrebbe avere carta bianca per spostarsi da una parte all’altra del globo è totalmente irrazionale e va contro la logica che, nostro malgrado, da due anni a questa parte ordina e limita le nostre vite. Eppure.
Eppure, basterebbe fare i conti, e fare le cose per bene, senza panico. Alla fine, quanti sono, questi buoni ebrei (o famigliari di essi) che nello specifico vorrebbero entrare in Israele proprio durante momenti delicati della pandemia, e perché vorrebbero entrare? A guardar bene si tratta di centinaia, forse neanche migliaia, e se negli ultimi mesi è esistito un sistema – difficoltoso, lui sì irrazionale e comunque sgradevolissimo – che permetteva alle autorità di filtrare e poi tracciare arrivi e luoghi di permanenza di tutti i viaggiatori, non si vede perché non lo si potesse adattare momentaneamente e decretare magari di nuovo l’isolamento per chi entra nel paese, piuttosto che chiudere la porta a chiave e lasciare tutti fuori indiscriminatamente. Anche perché, guardando poi alle motivazioni di questi spostamenti, le chiusure impediscono ancora, in molti casi da quasi due anni, ricongiungimenti famigliari, visite a malati gravi e ogni altra presenza in momenti anche felici, come matrimoni di figli e nascite di nipoti, che in un paese fatto di immigrati è come dire agli olim chadashim che devono ritornare a vivere la loro aliyah come negli anni Quaranta o Cinquanta: un taglio netto con il passato e quasi nessuna probabilità di rivedere i famigliari lasciati nel paese d’origine per anni, lustri, o anche decenni. E se allora quella lontananza fisica è stata forse anche foriera di un più profondo senso di appartenenza al nuovo Stato, in anni fortemente ideologici o di volontario distacco dal mondo che aveva permesso e perpetrato la Shoah, gli immigrati di oggi non hanno invece messo in conto distacchi di lunghezza superiore ai pochi mesi. E la presenza della famiglia in momenti chiave delle loro vite è qualcosa che non avrebbero mai pensato di dover mettere in discussione. Negli ultimi decenni, essere in Israele o essere in diaspora per molte famiglie è diventato qualcosa di fluido, genitori di qua, figli uno qua uno là, cugini anche, e spesso parti di famiglia che passano periodi anche lunghi in Israele per poi tornare in diaspora, o viceversa. Ma sempre famiglia è. E sempre legittimo e sano il suo desiderio di potersi riunire, indipendentemente da quali passaporti ogni membro abbia o non abbia in tasca. E quindi il rav sudafricano tocca un nervo scoperto molto delicato anche al di là della pandemia, ma che con le chiusure da essa causate diventa più urgente e immediato affrontare.
Daniela Fubini
(29 novembre 2021)