Storie di Libia
Rachele Guetta Bentorà

Rachele Guetta Bentorà, ebrea libica, nata a Tripoli nel 1935. La sua famiglia era molto religiosa e osservava tutte le regole dell’ebraismo, il cibo, le feste, lo Shabbat, che iniziando il venerdì pomeriggio era gradito alla comunità musulmana in quanto il venerdì è giorno sacro e tutti indistintamente dovevano chiudere ogni attività.
La sua famiglia aveva un negozio di mobili e di arredamento. Il venerdì pomeriggio il marito portava lei e i loro figli in una pasticceria ebraica, dove si deliziavano di ogni tipo di dolce. Era un punto dove gli ebrei potevano socializzare e passare un po’ di tempo fuori casa, in quanto non potevano frequentare il centro e le piazze. Il rapporto con la comunità araba era ai limiti della convivenza, in quanto raramente i musulmani provavano simpatia nei confronti degli ebrei.
Di solito, racconta, erano razzisti. Ed alcuni fingevano di essere amici per interessi personali. Tutti gli ebrei uscivano molto poco, specialmente la sera, proprio per non incappare in facinorosi che cercavano la lite e la scusa per picchiarli. Le donne uscivano molto raramente da sole perché venivano importunate, se non addirittura molestate pesantemente da alcuni arabi. Rachele racconta che quando era incinta di quasi quattro mesi, un arabo le si mise dietro seguendola, entrando addirittura nel portone di casa sua: per lo spavento provato la notte stessa si senti male e purtroppo perse il bambino. In generale in Libia gli ebrei venivano spesso discriminati, offesi e vessati dalla popolazione araba. Non solo riguardo al sociale e alla religione, ma anche economicamente. Per esempio, per quanto riguardava i permessi o le licenze, per aprire un’attività per legge erano costretti ad avere un socio arabo al 51%, ma spesso era il socio arabo che decideva tutto, anche se in verità erano i veri proprietari. Questa regola, modificata nei secoli, era nata come tassa, nel VII Secolo, detta Dhimmi: un balzello che lo straniero non musulmano che loro chiamavano “infedele” (riguardava sia i cristiani che gli ebrei) doveva versare all’Emiro per poter vivere nel paese. Poi nel tempo fu tramutata in legge. Ogni “infedele”, in questo caso ogni ebreo, doveva rispettarla. Ecco perché era costretto ad avere un socio arabo per poter aprire qualsiasi tipo di attività. E l’ebreo libico, essendo sottomesso a tale regola, era un cittadino di seconda categoria. Rachele aggiunge che se bambini ebrei si mettevano a giocare sotto casa e facevano rumore spesso gli arabi non si accontentavano di sgridarli, ma uscivano addirittura armati di bastone per intimorirli. La vita di Rachele in Libia era agiata e non lavorava, semplicemente allevava i suoi cinque figli. Ha sempre amato aiutare il prossimo. Infatti quando partorì sua figlia, e aveva molto latte, tre volte al giorno si recava a casa di una donna araba che aveva partorito da poco per allattarle il figlio. Molti mesi dopo essere scappata dalla Libia rincontrò per caso quella donna a Roma, che la riconobbe subito, e a suo figlio ormai uomo disse: “Figlio mio, ti presento la tua seconda mamma, se non fosse stato per lei, non saresti stato vivo”. Questa è la dimostrazione che se si dimostra un’amicizia sincera, anche un “nemico” ti può amare. E questa non fu l’unica volta che un arabo si comportò bene con loro. In quel periodo molte famiglie ebree abitavano nella Galleria di Via Buono, tutti sapevano che quello era il palazzo degli ebrei. Il 5 Giugno 1967, il marito di Rachele andò come al solito al mercato e dopo pochissimo ritornò a casa spaventato e quasi urlando disse: “È scoppiata la guerra.” E lei gli rispose “Sì lo so, ma in Israele, mica qui a Tripoli”. Ma lui le disse di chiudere in fretta porte e finestre. Dopo pochi minuti la Galleria si riempì di arabi armati con coltelli, spranghe, vetri e badili che si misero a guardare minacciosi verso le finestre degli ebrei. Dopo pochi minuti iniziò una gragnuola di pietre che ruppe i vetri degli appartamenti. Terrorizzati e non sapendo cosa fare, decisero di scendere al primo piano da un loro vicino che aveva un appartamento con un grosso cancello di ferro. Questo naturalmente li fece entrare e dopo poco arrivarono altri ebrei, ed erano circa 30 persone dentro questo appartamento. Dopo poco sentirono il pavimento che bruciava sotto i loro piedi, e si accorsero che i negozi sotto agli appartamenti erano stati incendiati. Non sapevano che fare, se scendere e bruciare o scappare e farsi uccidere dalla folla inferocita. Si rifugiarono sul terrazzo, dove non arrivava il fuoco, fino alla sera. Stremata dalle tante ore in piedi, Rachele volle tornare a casa. Riuscirono ad entrare e a prendere soldi e oro e li infilarono in una federa. Corsero via ma volta giunti nella galleria videro che alcuni manifestanti gli correvano incontro. Fortunatamente un signore arabo si mise tra loro e il gruppo e urlò in arabo di fermarsi salvando loro la vita. Così riuscirono a rientrare nella casa del vicino con la porta di ferro dove rimasero ospiti per più di due settimane insieme alle altre trenta persone. Fu grazie al gruzzolo che Rachele aveva messo in salvo che tutti quanti ebbero da mangiare per molti giorni, riforniti da una drogheria loro vicina. Dopo alcuni giorni vennero due poliziotti che intimarono agli ebrei di lasciare la Libia. Grazie ai soldi di Rachele tutti i bagagli delle persone presenti nell’appartamento furono caricati nei taxi mentre nelle camionette salirono gli ebrei in direzione dell’aeroporto. Durante il tragitto ai lati della strada c’erano arabi che urlavano, minacciandoli di sgozzarli, ma erano protetti dalla polizia. Una volta all’aeroporto furono perquisiti. Gli portarono via tutto ciò che avevano – oro, soldi, gioielli e qualsiasi cosa di valore. Una signora per paura di essere derubata aveva nascosto i suoi beni dentro un grosso vaso di terracotta colmo di una conserva di pomodoro molto piccante che naturalmente non perquisirono. Una volta sull’aereo festeggiarono la libertà chiedendo alla hostess di servire champagne. Una volta arrivati in Italia come profughi, decisero di rimanere a Roma e trovarono una sistemazione a Piazza Bologna dove si erano concentrati molti altri ebrei libici. Ogni giorno la comunità si riuniva in un bellissimo giardino. Finalmente potevano godere della libertà che non potevano avere in Libia. Si rimboccarono le maniche: alle nuove generazioni non hanno voluto trasmettere le sofferenze subite, ma solo i ricordi positivi. I suoi figli avevano vissuto quell’esodo quindi non aveva bisogno di trasmettergli nulla. Rachele ha sempre pensato che non sarebbe stato giusto trasmettere cattivi ricordi alle nuove generazioni. Lei ricorda non solo ciò che aveva direttamente subito ma anche la persecuzione nei confronti degli ebrei durante la II Guerra Mondiale e nel ’45, perché anche in quel tempo i negozi degli ebrei erano stati bruciati, e tutto il mondo ricorda cosa successe. Ripensando al passato, anche se la situazione politica cambiasse, lei non vorrebbe più tornare in Libia. Ogni nostalgia finì quando incontrò Gheddafi a Roma e poterono ritornare a Tripoli anche se per poco. Non c’era più niente che la legasse a quel paese, solo il ricordo della grande sofferenza subita. In Italia dopotutto si trovava bene, anche se non la sentiva proprio come casa sua. L’unica volta che si sentì veramente a casa fu quando andò in Israele.
In Italia la sua famiglia e i suoi nipoti, sono stati educati ad osservare le tradizioni ebraiche libiche religiose, dalle varie regole, feste, cibo e tradizioni. La Libia ormai appartiene al passato e secondo lei sarebbe una causa persa lottare per riavere i beni confiscati: forse, afferma, è meglio lasciare che tutti i loro luoghi sacri vengano trasformati in centri islamici. Solo i cimiteri che contengono le ossa di tutti gli ebrei morti vorrebbe che venissero preservati. Un monumento a testimonianza del loro passaggio lo ritiene inutile visto che nessuno degli ebrei libici intende tornare a Tripoli.
Ciò che è stato insegnato dai loro avi, e poi dai genitori, riguardo la religione e la sua osservanza, è stato trasmesso alle nuove generazioni, perciò il ricordo dei libici ebrei continua nella memoria delle tradizioni e dei racconti. Essi non hanno nulla da insegnare agli altri se non ad avere amore, aiutare gli altri ebrei, ricordarsi sempre di sostenersi gli uni con gli altri, senza egoismo e ricambiare il bene ricevuto. Rachele ricorda quando suo marito era malato in Italia, ha dovuto fare molti lavori per poter mantenere i cinque figli, e D.O l’ha benedetta perché le ha permesso di vivere nell’agiatezza.
La sua missione nella vita è quella di aiutare il prossimo, per ricambiare ciò che ha ricevuto. Una delle sue più grandi gioie è di poter aiutare chi si trova privo di mezzi, come ad esempio molti ragazzi in ristrettezze economiche che desiderano sposarsi e che non avrebbero la possibilità di realizzare il loro sogno. Per far questo si reca presso vari negozianti ebrei per aiutarli ad avere un corredo e tutte le cose che possano servire in una casa per la festa di matrimonio. Da ogni negozio dove è entrata per questo non è mai uscita a mani vuote. Rachele conclude dicendo: “L’amore è l’unica cosa che si può insegnare e trasmettere alle future generazioni”.

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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(29 novembre 2021)