La spiegazione di Beatrice

Come abbiamo ricordato nel sesto Canto del Paradiso Dante ascolta, dalla viva voce di Giustiniano, il racconto del cammino salvifico dell’aquila di Roma al cui interno è anche illustrata “la vendetta de la vendetta del peccato antico”, ossia la punizione del popolo ebraico per quella che – secondo una certa ottica cristiana – sarebbe la sua responsabilità storica di avere provocato la morte del “figlio di Dio”. Ma questo racconto lascia il poeta nel dubbio (“io dubitava”: 10): se quella morte era un atto di giustizia, in quanto compimento di un superiore disegno divino, perché doveva andare punita? Perché rendere giustizia per qualcosa che doveva necessariamente accadere, e che costituiva già, di per sé, la realizzazione di un disegno divino? Ma come può, innanzitutto, la giustizia imporre la morte di un innocente?
Dante non esprime però apertamente questo dubbio a Beatrice, diversamente dalle tante volte in cui aveva chiesto lumi a Virgilio, ma si limita a desiderare ardentemente, dentro di sé, che ella le sveli questo che gli appare un inquietante e doloroso mistero (“‘Dille, dille!’/ fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna/ che mi diseta con le dolci stille”: VII. 10-12). Ma Beatrice gli legge nel pensiero: “Secondo mio infallibile avviso,/ come giusta vendetta giustamente/ punita fosse, t’ha in pensiero miso” (VII. 19-21) ed esaudisce la sua muta richiesta: “io ti solverò tosto la mente,/ e tu ascolta” (22-23).
Va chiarito che il dubbio di Dante verte su due cose distinte, delle quali soltanto la seconda coinvolge il popolo ebraico. La prima “domanda muta”, infatti, riguarda soltanto la questione (assolutamente centrale, com’è noto, nella teologia cristiana) della morte di Gesù come sacrificio necessario per la salvezza dell’intera umanità. Si tratta di una verità di fede che non coinvolge direttamente l’ebraismo, per la quale il poeta mostra di desiderare una spiegazione, in quanto essa pare confliggere con la sua idea di giustizia, imperniata sul principio dell’esclusiva responsabilità personale.
La spiegazione di Beatrice ricalca con precisione la visione teologica in vigore nel Medio Evo, e ancora (sia pure in modo meno evidente) al giorno d’oggi. In colui che, nell’ottica cristiana, è considerato il figlio di Dio, si sarebbero riunite due nature, l’umana e la divina. Adamo, col suo peccato, avrebbe condannato tutto il genere umano che da lui discese (“dannando sé, dannò tutta sua prole”: 27), finché Dio non avrebbe deciso di mandare sulla terra suo figlio, per riscattarlo da tale condizione. Con l’incarnazione, sarebbe avvenuta la miracolosa unione della natura umana e divina: il figlio di Dio, spiega Beatrice, nell’essere generato, sarebbe stato mondo da peccato, ma, purtuttavia, in quanto fatto uomo, avrebbe condiviso l’esclusione dalla salvezza del genere umano, al quale anch’egli apparteneva.
La sua pena sarebbe stata dunque giusta, in quanto volta a ‘vendicare’ una colpa propria di tutta l’umanità, e quindi anche dello stesso Gesù una volta fatto uomo; ma sarebbe stata anche ingiusta, dal momento che a essere colpito fu un innocente, anzi, l’unico essere umano che, sul piano individuale – secondo la visione cristiana – non avesse mai conosciuto peccato.
Come abbiamo già detto in questa spiegazione, sul piano dell’argomentazione teologica, non c’è nulla di nuovo. E l’idea della doppia natura, umana e divina, di Gesù, e della sua morte come sacrificio necessario per “vendicare” il peccato antico. Non è cambiata, né potrà cambiare, finché il cristianesimo resterà quello che è, essendo assurta a livello di basilare verità dogmatica di fede. È una teoria indipendente dall’idea del cd. “deicidio”, e che non risulta avere una natura antiebraica (anche se strettamente legata all’irreversibile divergenza tra le due religioni). Né sentimenti antisemiti paiono trasparire dalle parole di Beatrice.
Riguarda direttamente il popolo ebraico, invece, la seconda parte del dubbio di Dante, riguardante la successiva distruzione di Gerusalemme come punizione per la condanna e l’esecuzione di Gesù. Perché tale evento avrebbe dovuto essere considerato un atto di giustizia? (“giusta vendetta/ poscia vengiata fu da giusta corte” (50-51): la “giusta corte” fu l’esercito di Roma, assurto a livello di un tribunale, chiamato a fare giustizia, dando applicazione a una giusta sentenza).
È importante notare, al riguardo, che l’idea di una responsabilità collettiva del popolo ebraico, e della conseguente necessità della sua punizione da parte di una “giusta corte” (essa sì, indubbiamente, improntata a una ostilità chiaramente antisemita) – mai elevata a livello di dogma, è stata abbandonata, almeno in apparenza, anche se in tempi relativamente recenti. Ricordiamo, al proposito, che il rifiuto più intransigente, riguardo al progetto sionista, Theodor Herzl lo ricevette proprio dal Vaticano, per il quale si sarebbe potuto parlare della cosa solo dopo che gli ebrei avessero fatto ammenda della loro colpa, riconoscendo, finalmente, in Gesù il figlio di Dio; e che, subito dopo l’indipendenza di Israele, a seguito di un’iniziativa evidentemente pianificata, la neocostituita Corte Suprema fu raggiunta da numerose istanze che chiedevano, quasi duemila anni dopo, la riapertura del processo contro il Nazareno, e la proclamazione della sua innocenza: quel piccolo staterello, che si riaffacciava sul proscenio della storia, non nasceva, evidentemente, ‘creditore’, nei confronti della storia stessa, di sei milioni di martiri, ma ‘debitore’ di quel lontanissimo, ma considerato ancora attualissimo, “errore giudiziario”.
Non rilevando, pertanto, le spiegazioni teologiche di Beatrice in merito alla Passione, ciò che interessa – sullo specifico piano delle posizioni di Dante verso l’ebraismo – è l’atteggiamento emotivo e psicologico del poeta di fronte a quella punizione collettiva che gli appare, evidentemente, una realtà tanto dura quanto incomprensibile. Possono essere avanzate, pertanto, due domande.
La prima è: come reagisce Dante all’interpretazione offerta da Beatrice della “vendetta de la vendetta”? Appare, finalmente, soddisfatto e appagato, o resta nella sua sofferta inquietudine e incertezza?
La seconda, per noi particolarmente rilevante, è: di fronte a tale argomentazione, quale atteggiamento il poeta mostra di provare, specificamente, riguardo alla sofferenza del popolo ebraico per quella morte che “piacque a Dio e ai Giudei”? Dolore, compassione, indifferenza, compiacimento?
Cercheremo di rispondere nella prossima puntata, con la quale chiuderemo la trattazione di questo tema, per passare ad altri aspetti del complesso rapporto tra Dante e l’ebraismo.

Francesco Lucrezi

(1 dicembre 2021)