Profughi al confine
“Nel caos di Ventimiglia tra bivacchi, ronde, proteste”. Questo il drammatico titolo di un recente articolo del Corriere della Sera a proposito dei migranti diretti in Francia. Purtroppo niente di nuovo. Un interessante libro di Alessandro Carassale e Claudio Littardi, Frontiera Judaica, Gli Ebrei nello spazio ligure provenzale dal Medio Evo alla Shoah, (Fusta editore), da poco pubblicato, racconta, con un’ esposizione drammatica ed efficace, tanti aspetti poco noti di quegli estremi angoli dei due Stati confinanti, l’Italia (ancora Regno) e la Repubblica francese. Premesso che il territorio della Provenza cambiò gradualmente appartenenza e sovranità: nei secoli più antichi faceva capo ai Savoia, che la controllavano da Torino, ma gradatamente il territorio sabaudo si restrinse a favore dei francesi. Il dettaglio della storia sarebbe troppo lungo da raccontare. Ma allora, come oggi, la costa ligure-provenzale (ed in parte il contiguo territorio montano) rappresentavano praticamente l’unico passaggio praticabile (a differenza della Barriera Alpina difficile da valicare in autonomia) da parte dei tanti rifugiati in Italia che, entrati nel Paese intendevano proseguire il loro percorso migratorio verso la Francia, sia come destinazione finale, che come transito verso la più sicura Gran Bretagna.
Il libro di Carassale e Littardi fornisce un interessante panorama della mutevole situazione dell’estremo lembo occidentale della Liguria e della contigua Provenza, con le conseguenti mutevoli e mutate interdizioni verso i migranti fuggitivi che si trovavano a dover affrontare difficoltà diverse, ma sempre gravi per superare la frontiera. Strazianti sono le testimonianze delle difficoltà e della disperazione dei profughi ebrei che, tra la fine degli anni ‘30 e l’inizio degli anni ‘40 del ‘900, cercavano di sfuggire alla persecuzione nazista in Germania e nell’est europeo e all’oppressione fascista in Italia.
A sorpresa, poi, il libro affronta anche un altro aspetto del tutto eterogeneo, ma probabilmente in qualche modo legato al passaggio dei profughi ebrei, la produzione ed il commercio degli “arba minim”, le quattro specie (vegetali: palma, cedro, mirto e salice) impiegate dal rito ebraico per la celebrazione di Sukkot. È possibile (e ragionevole pensare) che gli ebrei in fuga dal fascismo e dal nazismo, si rivolgessero ai loro fornitori cattolici (di fronde ed etroghim) che abitavano (e quindi conoscevano bene) una critica area di frontiera, per chiedere aiuto a persone esperte del luogo con le quali avevano sviluppato un prolungato e proficuo rapporto di fiducia.
La palma ed il cedro raramente trovano in Europa un clima adatto al loro sviluppo. Ma nel Ponente ligure, il versante meridionale delle Alpi marittime costituisce un’oasi tiepida, valorizzata dai locali agricoltori, per la coltivazione e l’allevamento sia di palme che di agrumi. L’importanza economica di questa situazione climatica e del suo utilizzo agricolo venne rilevato dalle autorità pubbliche della zona che emisero leggi e provvedimenti per regolamentare, l’allevamento, il taglio, la vendita e l’esportazione sia di fronde di palme che di cedri prodotti nella zona. Addirittura fin dal 1435 il Comune di Sanremo emise una norma che prescriveva che i coltivatori potevano vendere le fronde di palme soltanto in abbinamento a un pari valore di frutti di cedri. Il trasporto verso la destinazione finale doveva avvenire su imbarcazioni di proprietà locale. La produzione (e soprattutto il taglio) dei germogli apicali di palma per l’impiego quali “lulavim” di Sukkot richiedeva una certa abilità agronomica, ma soprattutto una notevole maestria per arrampicarsi sulla sommità delle palme. I coltivatori che avevano le capacità (agronomiche ed…atletiche) per dedicarsi a questa tipo di coltivazione divennero “parmuré”, i coltivatori di palme “ all’Hebrea” capaci di soddisfare le complesse esigenze del rito ebraico. Oggi il commercio di fronde di palme si è spostato verso Israele e i paesi della sponda sud del Mediterraneo, ma nel Ponente Ligure c’è ancora qualche (raro) “parmuré” che ricorda gli antichi fasti. Ne riparleremo in un prossimo intervento.
Roberto Jona, agronomo