Israele, una vita troppo cara

Nei primi anni dello scorso decennio gli israeliani riempirono per alcuni mesi le piazze per protestare contro il caro-vita, in particolare contro il caro-abitazioni: per molte giovani coppie la prima casa era proibitiva, a meno di non abitare lontano dai luoghi di lavoro e passare lunghe ore imbottigliati nel traffico. Da quelle proteste scaturirono due importanti provvedimenti del governo Netanyahu: un pacchetto di misure mirate ad aumentare l’offerta di alloggi e contenerne i prezzi; una legge che imponeva lo smantellamento dei conglomerati industriali e finanziari, posseduti da “oligarchi” come i Dankner e gli Arison, che dominavano l’economia israeliana impedendo la concorrenza e tenendo artificiosamente alti i prezzi in molti settori.
Quei due importanti provvedimenti hanno purtroppo avuto, a distanza di anni, effetti trascurabili: il costo degli immobili ha continuato a galoppare, anche per effetto del bassissimo livello dei tassi d’interesse a livello mondiale; le restrizioni agli oligarchi e ai conglomerati hanno rafforzato la democrazia israeliana e hanno reso più etica l’economia ma non hanno avuto effetti apprezzabili sulle tasche dei consumatori.
Israele continua a essere un paese dove il costo della vita è molto elevato rispetto al potere d’acquisto e al reddito medio. Questo vale non solo per Tel Aviv, dove il turista italiano rimane spiazzato dai prezzi degli hotel, dei ristoranti e dei supermercati, ma per tutto il paese. Negli ultimi mesi l’israeliano medio si lamenta di un ulteriore perdita di potere d’acquisto: nonostante il recente apprezzamento dello shekel, che in teoria dovrebbe ridurre il costo dei beni importati, è accaduto che i prezzi nei supermercati, che erano già alti, sono aumentati ulteriormente. A provocare questo nuovo rialzo dei prezzi è, come in altri paesi, l’aumento dei prezzi internazionali dell’energia e delle materie prime.
Ma perché il costo della vita è sempre stato così elevato, anche prima dei recenti rincari legati al Covid? Secondo le analisi di organismi internazionali come l’OCSE un ruolo importante è svolto dalle imposte sui consumi, più elevate che in altri paesi, ma il problema strutturale dell’economia israeliana è rappresentato dalle numerose, anche se poco visibili, restrizioni alle importazioni e alla concorrenza. L’elenco è lungo: in primo luogo, è difficile importare: per esempio ci sono dazi su molte importazioni, numerose pastoie burocratiche (è difficile importare carne kasher), divieti di acquisti online di prodotti esteri; secondo, i fortunati importatori spesso ottengono dai fornitori l’esclusiva e quindi impongono prezzi elevati ai consumatori; terzo, sono numerosi i monopoli e le pratiche collusive tra produttori (per esempio, Tnuva ha un quasi monopolio sui prodotti  caseari) e tra venditori di beni e di servizi (la catena di supermercati Supersal ha pagato 25 milioni di shekel di multa per pratiche anti-concorrenziali).
Riuscirà la classe politica israeliana a prendere coraggio e eliminare tutte queste restrizioni e comportamenti collusivi? Non sarà facile: ci sono come sempre degli interessi costituiti e i titolari di queste “rendite” si oppongono strenuamente (anche in Italia la recente Legge sulla concorrenza ha suscitato reazioni delle varie lobby): le restrizioni alle importazioni favoriscono alcuni produttori locali, che si oppongono; i monopoli nella produzione e nel commercio arricchiscono le imprese colluse, che spesso condizionano e finanziano la politica.

Aviram Levy, economista