Storie di Libia – Ariel Arbib
Ariel Arbib, ultimo di cinque figli e l’unico nato in Italia da una famiglia ebraica di Libia. È una delle persone più influenti della Comunità ebraica tripolina. L’intervista si svolge nel Tempio Spagnolo, situato sotto il Tempio Maggiore in via Catalana a Roma. Tutta la famiglia Arbib, partendo dai suoi avi, ha sempre vissuto a Tripoli. Almeno fino al 1948.
Suo padre ha lavorato molti anni nelle Ferrovie di Tripoli e raccontava sempre che per poter lavorare, ancora minorenne, arrivò a falsificare la data di nascita, così da aiutare economicamente la famiglia. Con il tempo divenne capostazione. Purtroppo a causa delle leggi razziste e del fascismo fu costretto ad abbandonare il proprio lavoro: un periodo durante il quale intraprese diverse attività imprenditoriali, allestendo una tonnara ed in seguito ingaggiando pescatori greci per la pesca delle spugne. Abbandonò definitivamente la Libia nel 1948. Sposato con allora ancora quattro figli, si era ritrovato all’improvviso senza lavoro e senza stipendio. Così decise che fosse arrivato il momento di fare Aliyah e trasferirsi in Israele. Erano tutti di nazionalità italiana. Arrivarono a Roma, dove la Comunità ebraica aveva in vari quartieri dei campi dove raggruppavano gli ebrei che dovevano partire per Israele divisi secondo la nazionalità. Loro furono mandati in quello di Ostia. Avvenne che nel loro gruppo una bambina si ammalò di tifo e quindi tutti furono messi in quarantena e la partenza rimandata. Inizialmente ne furono molto contrariati ma a distanza di tempo si resero conto che certe cose accadono perché è proprio D.O a volerle. Infatti suo padre nei giorni seguenti, andando a Roma per vendere qualche sterlina d’oro messa da parte per tempi difficili, incontrò un suo ex collega delle Ferrovie, non ebreo, che dopo saluti e abbracci per la gioia di ritrovarsi lo mise al corrente delle nuove decisioni politiche dello Stato italiano. Si trattava di far riavere a tutti italiani epurati per le nefande leggi razziste il posto di lavoro perso a Tripoli, e anche di rimborsare tutti gli stipendi persi a causa delle vicende accadute a causa dell’epurazione. Si andò ad informare personalmente e così decise di rimanere a Roma. Grazie agli anni di lavoro riconosciuti a Tripoli potè andare in pensione molto presto, e decise di aprire un’attività commerciale assieme ai due figli maschi oramai non più ragazzi. Nel frattempo Ariel nacque in quel periodo a Roma e precisamente il 15 gennaio del 1950, nella Clinica Maternità di Cave a Testaccio.
Suo padre ha sempre avuto a cuore il suo popolo e le sue origini: nelle vita è sempre stato attivista e sionista e ha lottato per il riconoscimento dei diritti ebraico-libici e per preservare le loro antiche tradizioni religiose. Avendo alle spalle degli avi che erano stati importanti cabalisti e cantori dei salmi in sinagoga, per dare voce alle famiglie ebraiche tripoline che vivevano a Roma fondò un’Associazione Ebraico Sionista chiamata Maccabi, che poi passò ad altre mani. Inoltre per far sì che tutte le famiglie ebraico libiche presenti nel territorio avessero un posto dove riunirsi e nel quale celebrare i propri riti, nel 1953 chiese ed ottenne dal compianto Rav Elio Toaff di avere in dotazione il locale sottostante al Tempio Maggiore, conosciuto come Tempio Spagnolo. In quel periodo tra molti degli ebrei romani l’osservanza delle loro tradizioni religiose era vissuta in maniera stanca e diluita, sicuramente anche a causa del pesante fardello che gli scampati alle persecuzioni si trascinavano sulle spalle. Negli anni, soprattutto dopo l’esodo dalla Libia nel 1967, la vicinanza degli ebrei libici, fermi nella pratica delle tradizioni, influì positivamente su di loro anche grazie ai matrimoni “misti”. Queste unioni in qualche modo “rafforzarono” l’osservanza delle loro pratiche religiose e l’attaccamento ad Israele. Per molto tempo nel Tempio Spagnolo in uso alla Comunità Tripolina per Yom Kippur ed inizialmente anche per Rosh ha Shanà non sono mai mancate le puntuali visite per i saluti di Rav Toaff e dopo di lui anche di Rav Riccardo Di Segni, che ancora oggi li onora della sua presenza e dei suoi interessanti Dvar Torà. La sinagoga è sempre stata affollata durante i Moadim. Essendo nato pochi anni dopo il trasferimento definitivo in Italia della sua famiglia, Ariel racconta della sua infanzia degli aneddoti su ciò che lui e gli altri bimbi facevano in sinagoga, di quando giocavano nel giardino del Tempio facendo tanto rumore da infastidire i grandi che celebravano dei riti importanti, e che spesso uscivano per zittirli. Ci racconta del famoso trono di pietra presente tuttora nella sala al lato dell’Aron: lui lottava per non farlo occupare dagli altri bambini perché da lì poteva controllare ciò che succedeva e vedeva tutto ciò che suo padre faceva. Il Tempio Spagnolo fu molto importante per gli ebrei libici, che potevano continuare a pregare portando avanti la loro tradizione religiosa e farsi conoscere, in quanto le loro usanze ed i loro riti erano pressoché sconosciuti e venivano guardati con affettuosa curiosità dagli ebrei romani, che vedevano in loro una determinata inflessibilità sulla osservanza. A quel tempo esisteva una sola macelleria kosher, del signor Angelino, e suo padre Roberto il giovedì quando andava a fare la spesa faceva la fila per molte ore. In casa loro si mangiava kosher e si beveva vino kosher, e quando spesso la madre Esther non lo trovava lo faceva lei con lo Zibibbo bollito, anche se non era un granché. Erano molto osservanti.
Capitò che sua madre, quando Ariel era ancora neonato, dovesse scaldargli il latte ma non potendo accendere il fuoco bussò alla casa di fronte, dove viveva una famiglia di siciliani non ebrei, molto gentili e affettuosi con loro. Facendo finta di non capire come mai non riuscisse ad accendere il fuoco, la donna entrò in casa per vedere come poterla aiutare, e così potè scaldare il latte. Il sabato successivo ebbe lo stesso problema e così la mamma di Ariel fu costretta a rivelarle il vero motivo. La signora non la giudicò affatto, anzi. Ogni sabato andava e accendeva il fuoco per scaldare il cibo al bimbo. Essendo la famiglia Arbib emigrata a Roma nel 1948, non dovette subire le ingiustizie, angherie, la mancanza di libertà e poi la fuga da Tripoli per salvarsi la vita che subirono gli ebrei libici nel 1967. Comunque, anche se di riflesso, hanno vissuto la tragedia, in quanto un fratello e una sorella di sua madre ancora vivevano in Libia. Quando due delle loro cugine furono in età purtroppo “molestabile”, furono mandate a Roma da Tripoli e vissero da loro per circa un anno e mezzo. Un loro cugino, una testa calda a cui gli arabi avevano giurato di fargliela pagare, si rifugiò a Roma e rimase per molti anni con loro. Dopo essere stati scacciati gli ebrei libici si riversarono a frotte in Italia, specialmente a Roma. Per esorcizzare il loro trauma desideravano quasi tutti andare in Israele. Per sostenerli e soprattutto per sostenere Israele, Ariel e sua sorella Luisa decisero di partire volontari per dare il proprio contributo a pochi giorni dalla fine della guerra del Giugno 1967. Vissero per oltre due mesi in un kibbutz dell’alta Galilea, Shahar ha Makim, aiutando e sostituendo nei lavori dei campi tutti i ragazzi allora impegnati nella guerra appena conclusa vittoriosamente, ma che ancora ne richiedeva la presenza. Tornato a Roma si rese conto che c’era molto lavoro da fare per aiutare tutti i loro connazionali. C’era talmente tanta gente che non entravano tutti in sinagoga e dovevano mettersi seduti fuori o cercare appartamenti dove potersi riunire. In molti si concentrarono a Piazza Bologna. Molti ancora partirono per Israele, ma altri decisero di rimanere in Italia. Per la Comunità diciamo più vecchia, ebraico tripolina, fu come una ventata fresca la venuta di tutti questi profughi. Si respirava aria di positività, erano colmi di gioia perché erano finalmente liberi, non avevano più paura di guardarsi le spalle per timore di essere molestati, offesi o di dire qualcosa che potesse provocare l’ira di qualche arabo. Vivere finalmente una vita normale, andare a ballare con gli amici, andarsi a mangiare una pizza e affittare una casa al mare per le vacanze. Poter urlare “Viva Israele”. Nacquero molte nuove amicizie che tutt’ora resistono nel tempo. Nessuno si perse d’animo, si rimboccarono tutti le maniche per crearsi un futuro, divennero professionisti, imprenditori, commercianti e alcune famiglie si distinsero nell’Industria Cinematografica: crearono delle bellissime aziende. Se fossero rimasti a Tripoli non avrebbero avuto le stesse possibilità di creare un futuro solido e duraturo. Molti a Tripoli erano diventati ricchi, ma non erano liberi e poi avevano dovuto abbandonare tutto. Probabilmente se fossero rimasti lì, la famiglia di Ariel avrebbe vissuto una vita semplice, visto che il padre, dati i suoi trascorsi lavorativi, non aveva avuto una mentalità imprenditoriale se non forzata dalle vicissitudini del fascismo e della guerra. Ma quel modo di pensare, col passare degli anni, tutti i figli se lo sono scrollato dalle spalle. Ma non hanno mai dimenticato l’insegnamento delle tradizioni religiose ebraico libiche che tuttora osservano scrupolosamente, preservandole anche se lontani dalla Libia. Anche se Ariel era il più piccolo di tutti è stato cresciuto tra queste tradizioni, anche per quanto riguarda il cibo. I suoi genitori, ma anche i suoi fratelli essendo più grandi, gli hanno trasmesso questa cosiddetta tripolinità, assieme alla sua parlata araba, che ancora oggi fa parte del suo bagaglio culturale. L’amore per la religione e l’educazione ebraica ricevuta a scuola gli provoca ancora emozione quando entra al Tempio Maggiore e quando partecipa soprattutto alle celebrazioni di Oshaannà Rabbà o di Hannukkà. Nonostante la repressione subita in quel luogo, le persone continuano a sorridere sulle cose ed ironizzare. Certo ogni tanto anche a piangere, ma alla fine sono sempre pronti a sdrammatizzare e a giocare sugli aspetti pur tristi delle cose accadute. Nonostante la confisca dei beni e i Pogrom subiti, le popolazioni musulmane che bruciavano negozi, scuole, sinagoghe, la guerra dei sei giorni e la cacciata, Ariel ritiene che quella sia una data da ricordare come un altro Purim e che dopo 54 anni sia inutile lottare per ottenere i risarcimenti. Sarebbe come lottare contro i mulini a vento, una causa persa. Se in tutti questi anni il governo libico non è mai cambiato e non ha mai preso posizioni positive, né mai avuto intenzioni di voler risarcire, continuare a sperare è folle visto che i libici non hanno mai dato un minimo segnale di volere sanare questa ingiustizia. Pure in Israele, afferma, ci sono i palestinesi che rivendicano situazioni analoghe e insistere su questa strada potrebbe portare a problematiche ancora maggiori. Secondo Ariel i libici non cambieranno idea, quindi inutile nutrire la speranza di poter preservare i luoghi sacri degli ebrei come i cimiteri, le strade, le sinagoghe ed altri luoghi ebraici presenti in Libia, che sono veramente una testimonianza millenaria della presenza ebraica. Senza una volontà politica di un popolo che desidera sdoganarsi dalla tirannia di una mentalità ignorante e chiusa, e non desidera la democrazia, cosa si può fare per preservare questi luoghi? Qualsiasi popolo con una certa saggezza, sapendo che nel proprio paese sono presenti dei luoghi antichi, dovrebbe voler preservare tali importanti testimonianze storiche. È possibile tentare di preservare tali testimonianze, quando ai libici non interessa?. Un popolo che ha costruito autostrade sui cimiteri ebraici. Quale sarebbe l’alternativa, portare via tutti i corpi rimasti? Impossibile questa impresa.
In merito a costruire monumenti in memoria delle vittime ebraiche del ’45, del ’48, del ’67 e della Shoah Ariel ritiene sia inutile se il popolo libico non raggiunge l’autodeterminazione e non riconosce il proprio “privilegio” di aver convissuto per secoli col popolo ebraico e con la sua storia e non ne desideri onorare la sua passata presenza. È vero che alcune Nazioni che hanno oppresso gli ebrei hanno cambiato pensiero nei loro confronti, come è successo in Spagna o in Germania, ma gli arabi di oggi, oppressi e nello stesso tempo vittime del loro orgoglio ma anche della loro stessa ottusità, non riuscirebbero a fare lo stesso.
Adesso gli ebrei libici che vivono la loro vita normale, la loro religione in pace, possono trasmettere alle generazioni solo i bei ricordi, di coloro che li hanno preceduti, dei propri genitori e fratelli. La gioia nel festeggiare le feste e trasmettere integre le tradizioni. Ariel ha bellissimi ricordi di suo padre, che era anche un appassionato di nuoto e pugilato e si occupava di sport in senso ampio: infatti aveva fondato un Circolo Sportivo con altri amici negli anni ’20. Agli inizi si chiamava Ben Sion, in seguito Maccabi. Nel 1931 fu affiliato dalla World Maccabi Union. Nel 1935 il team Maccabi di Tripoli, con i suoi quarantacinque atleti accompagnati da suo padre, partecipò alla seconda Maccabiade che si svolse in Israele negli stadi di Ramat Gan e Tel Aviv. Non vinsero medaglie, ma questo avvenimento fece portare in alto il nome della loro comunità. Ariel è felice che i suoi cari e gli avi abbiano lasciato segni tangibili del loro operato in questo mondo, e gode di grande soddisfazione nel vedere una piece teatrale scritta dal proprio padre, rappresentata nei teatri importanti di Tripoli. Ariel ha donato questi ricordi che sono di testimonianza e anche di insegnamento, al Museo Ebraico del Tempio Maggiore di Roma, nella parte dedicata agli ebrei libici. Sono ritagli di giornale e foto di eventi, organizzazioni sportive del Maccabi-Tripoli, tutti oggetti appartenuti alla storia della sua famiglia. Ricordi indelebili da tramandare alle future generazioni e far conoscere in tutto il mondo.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(6 dicembre 2021)