In concerto nel Negev

Ogni ricerca ha paternità ed ereditarietà; non nasce dal nulla e diviene fondamentale quando conferisce il continuum spazio-temporale a quanto precedentemente maturato.
La ricerca musicale concentrazionaria si distingue da altre ricerche per il suo elevato tasso di condivisione; quanto scoperto va prioritariamente messo in sharing.
Tale ricerca si poggia sul lavoro musicologico compiuto da Aleksander Kulisiewicz, Bret Werb, Guido Fackler, Schmerke Kaczerginski, Johanna Spector, David Bloch, Lena Makarova, Ulrike Migdal, Eleonore Philipp, Robert Kolben, Gabriele Knapp, Milan Kuna, Joža Karas, Sears Eldredge, Jana Belišová, Cyril Robinson, Claude Torres, Blanka Červinková, Albrecht Dümling, Werner Grünzweig, Inna Klause, Jascha Nemtsov, Erik Levi e pochi altri; tale ricerca si estende dal 1933 (apertura del KZ Dachau) al 1953 (morte di Stalin) e geopoliticamente dal 1919 (apertura del primo Gulag sulle Isole Solovki) al 1958 (liberazione degli ultimi musicisti lettoni dai Gulag).
La portata storica della musica concentrazionaria – sulla quale grava un generale disinteresse da parte di istituzioni musicali e universitarie – sarà misurata e apprezzata unicamente negli anni a venire; occorre guardarsi da maldestri giocolieri e inesperte ballerine del circo sempre aperto di chi scopre in questa materia spazio utile per insopportabili protagonismi.
È difficile far tacere questi individui; tecnicamente, questa Musica appartiene agli autori ma soltanto la famiglia umana è legittima proprietaria e beneficiaria di questa letteratura.
Talora mi sono giunti testi di sedicenti “esperti” della materia; è sufficiente arrivare alla seconda pagina per capire che il “ricercatore” sta facendo copia/incolla di testi e risultati di ricerche altrui.
In tal caso, non ha senso proseguire nella lettura; sarebbe assurdo assaggiare la seconda volta una torta per scoprire che la panna è rancida, basta soltanto assaggiarne un pezzo.
Ghetti, Lager e Gulag ci hanno fornito la musica che ci servirà per il mondo a venire; trattasi di un caso in cui qualcosa del nostro passato risolve numerose problematiche del nostro futuro.
Di quella parte del futuro che conta, ovvio; quello artistico, l’unico che sopravvive di ogni civiltà.
Possiamo studiare il passato e immaginare il futuro ma entrambi coesistono con il presente, arduo da realizzare mentalmente ma è così; secondo la teoria della relatività, il futuro è reale e contestuale a presente e passato, facciamo tesoro di questa meravigliosa realtà.
Il 20 novembre 1948 a Beer Sheva, insieme a 35 musicisti, il pianista e direttore d’orchestra ebreo statunitense Leonard Bernstein allestì un memorabile concerto per militari e cittadini israeliani in piena zona operativa di guerra (foto); Bernstein suonò al pianoforte e diresse il Concerto K450 di W.A. Mozart, il Concerto n.1 di L.v. Beethoven e Rhapsody in Blue di G. Gershwin.
Il giornalista britannico Humphrey Burton scrisse che “quando gli aerei da ricognizione egiziani riferirono ai loro comandi di un gran numero di truppe israeliane ammassate a Beer Sheva, gli egiziani ritirarono le loro unità pensando che Israele stesse preparando un attacco nel Negev”.
L’Egitto pensò a una manovra militare e invece era un concerto; se ci pensiamo bene, non c’è molta differenza tra le due cose poiché lo Stato ebraico intendeva comunque impaurire il nemico.
Lo ha fatto, a ritmo di Mozart e Gershwin; perché chi fa musica incute sempre timore e soggezione al suo nemico, lo porta fuori coordinamento polverizzandogli ogni riferimento tattico.
Come tutta la musica di Ghetti, Lager e Gulag; vittoria a caro prezzo ma vittoria.

Francesco Lotoro