Periscopio – Ragione e fede
Nelle ultime puntate di questa rassegna sul rapporto tra Dante e l’ebraismo abbiamo trattato della descrizione dantesca della crocifissione come riparazione del cd. peccato originale, e della successiva distruzione di Gerusalemme come, secondo la concezione teologica cristiana del tempo, punizione collettiva per quell’accadimento. Abbiamo notato come il poeta manifesti una difficoltà di comprensione di fronte a queste due “vendette”, che gli paiono confliggere con la sua concezione delle giustizia – costantemente rappresentata nelle prime due cantiche – quale meccanismo di espiazione rivolto sempre esclusivamente verso responsabilità individuali.
Beatrice, abbiamo visto, gli dà una spiegazione, a proposito della quale, nell’ultima puntata, abbiamo sollevato due domande, relative all’atteggiamento emotivo e psicologico del poeta di fronte all’invito ricoltogli a far propria, sul piano della mera fede, una realtà che, sul piano della ragione, gli appare tanto dura quanto incomprensibile.
La prima è: come reagisce Dante innanzi all’interpretazione teologica della “vendetta de la vendetta”? La accetta serenamente, o persiste nella sua sofferta inquietudine e incertezza?
La seconda (di primaria importanza, ai fini del nostro discorso) è: di fronte a tale argomentazione, quale atteggiamento il poeta mostra di provare, specificamente, riguardo alla sofferenza del popolo ebraico per quella morte che “piacque a Dio e ai Giudei”? Compiacimento, indifferenza, dolore o compassione?
Quanto alla prima domanda, la risposta dipende, evidentemente, dalla presunta possibilità (e volontà) del poeta di passare dal piano della ragione a quello della fede, accettando di fare proprie delle verità che appaiono non solo inspiegabili, ma anche dolorose e, soprattutto, ‘ingiuste’. E il dolore scaturente dalla constatazione di un’apparente ingiustizia doveva essere particolarmente penoso per chi, come Dante, aveva edificato, al servizio dell’idea di giustizia, la mirabile costruzione dei tre regni ultramondani. Riesce, Dante, ad accantonare la sua razionalità, e il suo ideale di giustizia, a seguito dell’apodittica spiegazione di Beatrice (che, evidentemente, riferisce direttamente quella che, per il poeta, risultava essere la volontà divina, che non conosce dubbio né errore)? Appare soddisfatto e appagato di tale argomentazione?
Beatrice, prima di articolare il suo discorso, afferma di capire che il meccanismo di realizzazione del volere celeste appare oscuro al suo compagno di viaggio (“Tu dici:… ‘m’è occulto…'”: ma Dante non dice nulla, la sua amata gli legge nel pensiero), e chiarisce che quello che gli dirà non avrà valore sul piano della ragione, ma esclusivamente su quello della fede: la quale, a sua volta, si basa sull’accettazione dell’imperscrutabilità dell’amore divino: “Questo decreto… sta sepulto/ a li occhi di ciascuno il cui ingegno/ ne la fiamma d’amor non è adulto”: 58-60). La doppia decisione di Dio (“la vendetta del peccato antico” e “la vendetta de la vendetta”) non può essere compresa se non da chi si abbandoni completamente a questo spirito, che non può e non deve essere decifrato con la ragione umana (lo stesso concetto già formulato, con altre parole, in Purg. III. 37-39: “State contente, umane genti, al quia,/ che se potuto aveste veder tutto,/ mestier non era parturir Maria”).
Riesce, Dante, a compiere questo ‘salto’, a ‘sacrificare’ il suo senso di razionalità (e di giustizia) in nome di una fede che impone di accettare, senza domande, le sue verità? Rispondere richiederebbe di investigare nell’intimo della coscienza del fiorentino, al di là di ciò che egli ci comunica con la sua scrittura. Ma i versi della Commedia, secondo me, non rappresentano ciò in cui egli veramente ‘credeva’ (cosa impossibile da sapere, per nessun uomo, spesso neanche per noi stessi), ma una rappresentazione del suo eroico tentativo di uscita dalla “selva oscura”. In quanto tali, essi non raffigurano una ‘verità’, ma uno sforzo, un impegno, una elaborazione. Un viaggio compiuto con un atto di volontà, attraverso la ragione. Dante fu un uomo profondamente razionale. Quanto alla fede, avanzo una domanda che a molti potrà apparire provocatoria: siamo davvero sicuri che la possedesse senza dubbi e zone d’ombra? Se non ne avesse avuti, avrebbe affrontato la sua titanica impresa? Perciò, ove mai dovessi sentirmi autorizzato ad arrischiare l’asserita investigazione nella sua coscienza, la risposta che mi sentirei di dare è negativa: Dante – alla luce dell’insistenza con cui è formulato il suo smarrimento, e dell’evidente impegno che la sua guida mette nel tentativo di spiegare l’inspiegabile (col passaggio dal piano della ragione a quello del mistero) – non raggiunge la pace della comprensione. Resta smarrito e dubbioso come prima, forse più di prima. Accetta il suo limite di uomo, ma lo fa con interiore lacerazione.
La risposta alla seconda domanda (che, come abbiamo detto, è quella che maggiormente ci interessa) è più facile. Nessun compiacimento di fronte alla sofferenza del popolo ebraico è riscontrabile nella Commedia, né in nessun altro scritto di Dante. Simili sentimenti gli erano del tutto estranei, per quel popolo egli dimostra solo rispetto e ammirazione, sia pure nelle coordinate culturali del suo tempo. Indifferenza? Neanche, il poeta mostra di ben conoscere quel dolore, e la sua importanza nella storia. Dolore o compassione? Se ne ha provato, lo ha fatto nel segreto del suo cuore, perché non ci dà modo di saperlo. La sua poesia, com’è noto, gli ha spesso permesso di esprimere umana vicinanza verso i destinatari di un castigo divino. Lo si vede in pagine sublimi, quali quelle dedicate a Francesca, Farinata, Cavalcante, Brunetto, Ulisse. Non lo fa per gli ebrei esiliati, forse perché la loro condizione è da lui vista, più che come conseguenza di un castigo, come un dato naturale, generato da una punizione avvenuta – come abbiamo già avuto modo di spiegare – “una tantum”, e non più destinata, pertanto (cosa, però, purtroppo, non vera), a generare ulteriore sofferenza.
Francesco Lucrezi