Machshevet Israel
Gatti teologici

Parliamo di gatti, quelli di PDB che, nel mondo dell’editoria milanese, stava (e sta ancora per chi l’ha conosciuto) per Paolo De Benedetti zl, l’intellettuale astigiano di antica casata ebraica che si votò alla diffusione della conoscenza dell’ebraico e del giudaismo, e fu un naturaliter aggadista. L’occasione è una raffinata riedizione delle sue poesie-filastrocche dedicate ai felini domestici cui, facendo una crasi tra gatti e cantilene, ha dato nome di ‘gattilene’: 51 brevi componimenti, alcuni rasentano il non-sense ma assai poetici, cui si aggiungono liriche per mici scomparsi (ispirate a una micceide piemontese di fine XVIII secolo… PDB era un erudito) intrise di teodicea (era anche teologo, in un desueto senso del termine). Il tutto è riproposto dalla Morcelliana in un volume intitolato “Gattilene e dintorni. Antiche e nuove poesie”, splendidamente illustrato da Maria Lojacono e per la curatela di Sara Bignotti, con brevi testi di Maria De Benedetti, Giusi Quarenghi e Ilario Bertoletti (pp.146, 20 euro). Una chicca. L’amore di PDB per gli animali è noto, specie per i gatti. Scomparso esattamente cinque anni fa, i necrologi che gli furono dedicati su molti quotidiani si focalizzarono sulla sua idea che i nostri animali ci attendano in paradiso, come fossero angeli quadrupedi, perché è impossibile che la giustizia divina non salvi queste sue creature che come noi amano e soffrono, e soffrono ‘di dolore innocente’ a causa della primordiale trasgressione umana. Paolo credeva nel paradiso, per dare una chance a Dio di riscattarsi, quasi di redimersi, saldando un ‘debito divino’ con chi, nel mondo, soffre ingiustamente.
La sua vena teologico-aggadica è evidente in questa specie di midrash di sua invenzione, pieno di humor e saggezza rabbinica: “Nel paradiso terrestre i gatti non c’erano e contro le gambe di Adamo si strofinavano, ronzando come una centrale elettrica, tigri, pantere e leonesse. Poi Adamo peccò, e gli animali si rivoltarono contro l’uomo. Ma allora più che mai occorreva all’umanità smarrita un esempio di contegno sereno e una bussola a godere le ormai scarse letizie della selva. E la divina provvidenza fermò la crescita di certe tigri neonate, e le chiamò gatti: creati il nono giorno (l’ottavo fu quello del peccato) per consolare Adamo e ricordargli l’Eden”. I gatti sarebbero dunque stati creati per consolare l’umanità auto-feritarsi e auto-esiliatasi dal gan eden; se fosse vero (qui bisogna seguire la logica midrashica) in quanto consolatori hanno un compito di tipo messianico, almeno stando alla pagina di Talmud, Sanhedrin 99a, che insegna: Menachem ossia consolatore è uno dei nomi del messia.
Mandati come angeli ai mortali, secondo PDB i gatti sono pieni di “metafisica e magia”, tengono accesa la nostra nostalgia per la restaurazione messianica e ci fanno una compagnia discreta e saggia insegnandoci l’arte dell’attesa e della libertà. Credo che se ne fossero accorti anche gli antichi egizi, i quali usavano, tra le classi più alte, far imbalsamare i felini domestici per averli accanto a sé nel viaggio post-mortem. Quasi assenti invece nei testi biblici – per reazione alla cultura egizia? – sono stati di recente recuperati dal geniale artista francese Joann Sfar nelle sue graphic novels dedicate a “Il gatto del rabbino” che, essendo stato riassicurato dal suo padrone di essere un ‘gatto ebreo’ e avendo già compiuto sette anni (che nella vita di un gatto sono molto più di tredici!), vuole celebrare il suo bar mitzwà. Secondo il teologo astigiano i gatti, e gli altri animali, “miagolando, abbaiando, ragliando e mugolando lodano Dio meglio di Davide”. Non è forse detto, sempre nel Talmud, Berakhot 3a, che ci sono tre veglie nella notte e in esse il Santo benedetto ruggisce come un leone condividendo le sofferenze di Israele in esilio? Ora, queste veglie sono così scandite: nella prima si ode il raglio di un asino; nella seconda il mugolare lamentoso dei cani; nella terza la conversazione di una donna con suo marito mentre ella dà il seno al suo lattante. Per PDB quel raglio e quel mugolìo animale sono preghiere, che consolano Iddio benedetto prima della tenerezza di una madre che allatta.
Al suo amatissimo gatto Martino, giunto alla fine dei suoi giorni, De Benedetti ha dedicato una poesia mezza qinà e mezzo piyyiut, nel solco del midrash su Isaia 40,1, che legge non “consolate il Mio popolo”, ma piuttosto: “consolateMi o popolo”. Martino è incaricato di portare, tornato nel giardino finale, una carezza consolatoria nello spirito della rilettura midrashica: “Martino, gatto mio/ tu credi ch’io sia Dio,/ mi contempli adorante/ come fanno le sante/ e gli estatici frati/ scolpiti o pitturati./ E non sai che i tuoi occhi/ insegnano anche a me/ senza piegar ginocchi/ come pregare il Re/ un re come te zoppo/ di un regno ove il dolore/ anche per lui è troppo./ Per consolarlo, salga/ la nostra tenerezza/ affidata al tuo sguardo/ e a una tua carezza”. Persino Umberto Eco, in una incarrighiana, gli rese omaggio scrivendo di PDB [che] “un dì, come un rabbino, strologò sugli Elohim… Quando legge le Scritture/ noi ci vien lo stranguglione,/ ché cotanta erudizione/ a noi dona il mal di mar”.

Massimo Giuliani, università di Trento