Carceri e civiltà

Nel festeggiare la liberazione di Patrick Zaki non pochi hanno ricordato in questi giorni che di casi come quello di Zaki nelle carceri di tutto il mondo ve ne sono ancora numerosi. Nei regimi dittatoriali del sud del mondo in particolar modo, e probabilmente le poche storie a noi conosciute sono solo la piccola punta di un iceberg.
Oltre a ricordare chi è detenuto ingiustamente o/e per reati d’opinione, stupisce come al giorno d’oggi raramente nel dibattito pubblico si rifletta ancora sul carcere in sé. Al contrario di ciò che avvenne nel secondo dopoguerra quando si cominciò a parlare di “istituzioni totali” – parola associata spesso al lavoro del sociologo ebreo statunitense Erving Goffman (1922-1982) -, e al loro ripensamento, come per esempio i manicomi.
In fondo, regimi o meno, le strutture carcerarie sono le stesse in ogni parte del globo, al di là delle tipologie di reato che possono portare alla reclusione e al trattamento migliore o peggiore al suo interno. Differenze non sottili, ma in sostanza sebbene siano cambiati i sistemi punitivi il carcere come idea e come luogo è rimasto praticamente immutato dagli albori dei tempi. Neanche le rivoluzioni del secolo scorso e i cambi di regimi, le nuove società, o i nuovi stati che si sono venuti a creare nel corso della storia contemporanea si sono mai granché focalizzati su un ripensamento del sistema carcerario. Per quanto almeno nell’antichità esso non fosse tanto un luogo di espiazione della pena ma un luogo di attesa della punizione (il più delle volte certo peggiore, perché si trattava della pena di morte) o del processo, una misura quindi provvisoria. Credo che così fosse anche concepito nella letteratura talmudica. Il carcere difatti compare già in Bereshit, con la storia di Yosef. Anche egli è dunque uno tra i primi innocenti ingiustamente detenuti. L’ingiusta detenzione a causa soprattutto di errori giudiziari avviene anche nel mondo occidentale, spesso là dove è prevista, ben si sa, ha portato alla pena capitale.
Secondo gli ultimi dati Istat (2021) la tipologia di reati più diffusa tra i detenuti nelle carceri italiane è la violazione della normativa sugli stupefacenti, seguono i reati di rapina e poi di furto. Mentre il reato di omicidio volontario al sesto, l’associazione di tipo mafioso al nono posto, e quello di violenza sessuale al quattordicesimo. Ogni reato se accertato ha la sua indiscutibile gravità. Ma ancora sembra non sia ancora ben appurato quanto la detenzione porti a una reale espiazione della pena da parte dell’individuo e a un reale reinserimento all’interno della società.
Michel Foucault scrisse nel celebre “Sorvegliare e Punire” che il sistema “non può fare a meno di produrre delinquenti”, se così il carcere oltre ad escludere l’individuo dalla società ne sarebbe una sorta di fucina o incubatrice, nella quale si è destinati a rientrarci prima o dopo – cosa che del resto accade molto spesso.
Mi sovviene a tal proposito un libro letto recentemente, “Zeitoun” di Dave Eggers (2010): Abdulrahman Zeitoun è uno statunitense di origini siriane, ben integrato e a capo di una solida impresa di ristrutturazioni immobiliari. Quando l’uragano Katrina si abbatte sul luogo dove vive, New Orleans, Zeitoun decide di restare in città per proteggere la sua attività lavorativa finendo poi per rendersi utile nei confronti dei propri concittadini bloccati in casa a seguito dell’inondazione. Le sue azioni di salvataggio vengono però interrotte quando egli viene arrestato erroneamente perché scambiato per un saccheggiatore o forse per un terrorista islamico. Resterà in detenzione in regime di isolamento per oltre un mese, senza che vengano formulate regolari accuse a suo carico e senza neppure la possibilità di avvertire telefonicamente i propri familiari i quali lo pensano deceduto in mezzo alla devastazione della città.
Nelle contestate misure di emergenza adottate a seguito di questa catastrofe il governo Bush trattò la questione al pari di un intervento militare, inviando nei luoghi colpiti migliaia di truppe ben armate della Guardia Nazionale, agenti delle forze di polizia di tutto il paese, e gruppi paramilitari. Eggers rimarca più volte il fatto che la ricostruzione di New Orleans partì dal rimettere in sesto per prima cosa il sistema carcerario della città: “mentre gli abitanti di New Orleans erano intrappolati nelle soffitte e imploravano aiuti da tetti e cavalcavia”, nella stazione ferroviaria già i primi giorni venivano costruite a mano le gabbie che avrebbero ospitato detenuti freschi d’arresto, con tanto di gabinetti chimici funzionanti e filo spinato.
Per Eggers, Zeitoun, fu comunque un libro sfortunato, perché il suo eroe oltre le vicende raccontate nel romanzo, nella realtà pare perdere la testa e trasformarsi in seguito effettivamente in un criminale. Egli dopo qualche anno torna altri mesi in carcere con accuse concrete, ovvero il tentato omicidio della propria ex moglie.
Indipendentemente dalle sue intenzioni, il romanzo di Eggers e la cronaca reale sembrano raccontare di come il carcere abbia trasformato un cittadino innocente in un cittadino colpevole, o un cittadino modello in un perfetto emarginato.
Qualcuno pare abbia affermato che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri” – la frase è spesso attribuita a Voltaire -. Quelle egiziane dove hanno recluso Zaki saranno sicuramente pessime, ma anche altrove credo che difficilmente potrebbero rappresentare in positivo un paese.

Francesco Moises Bassano