Storie di Libia – Gerard Journo

Gerard Journo è un ebreo di Libia, nato a Tripoli nel 1960. L’11 giugno del 1967, a causa della Guerra dei Sei giorni, fu costretto con la sua famiglia ad abbandonarla. La vittoria di Israele provocò l’ira degli arabi contro la minoranza ebraica e dopo il loro esodo il governo libico si affrettò a confiscare ogni loro avere. Arrivati a Roma, si rimboccarono le maniche per ricostruirsi una nuova vita. La famiglia era riuscita a portarsi via ben poco rispetto a quanto avevano dovuto lasciare: solamente qualche vassoio d’argento creato del famoso argentiere Angelini e alcuni monili tradizionali che usavano portare le signore ebree tripoline. La famiglia Journo era agiata e molti suoi membri si sono fatti un nome, anche grazie alle loro doti di imprenditori. Lo zio di Gerard, Elia Lillo Journo, aveva fatto fortuna con il commercio del Tè dal Giappone molto amato dagli arabi. Suo padre, oltre ad essere un gran viaggiatore e conoscitore dell’Africa, fu uno scrittore di discreta fama perché scrisse un libri che ebbero successo. Si trattava di una raccolta di brevi racconti di vita degli ebrei libici a Tripoli, nel quale venivano narrati aneddoti di episodi sia negativi che ironici: fu l’unico ebreo libico a scrivere un libro del genere. Fra questi raccontò un aneddoto molto divertente riguardava una bibita, la gazzosa, che aveva un tappo di vetro che doveva essere spinto dentro alla bottiglia per poterla versare. Suo padre insieme ad alcuni amici erano seduti in un caffè, nel tavolino accanto c’erano alcuni ministri libici che discutevano tra di loro, erano intenti a domandandosi come fosse possibile che quel tappo di vetro potesse rimanere sospeso nello spazio fra il collo della bottiglia e il liquido senza cadere. Naturalmente il gruppo di ebrei si mise a ridere, in quanto ben sapevano che era il gas stesso della bibita a tenere la sfera che faceva da tappo. A casa Gerard possiede una vasta libreria, colma di testi dedicati alla tradizione e religione ebraica, Talmud, saggistica, tomi rari e alcuni libri in ricordo della sua famiglia molto particolari, come uno stampato in memoria della nonna paterna che aveva sulla copertina una Maghen David censurata con incollato un quadratino di carta colorata. In Libia era vietato mostrare qualsiasi simbolo sionista e quindi dovevano essere cancellate la Stella di David come la Menorah. Essendo quei libri di letteratura ebraica stampati in Italia, per essere spediti in Libia e non essere mandati al macero dalla censura gli editori dovevano nascondere qualsiasi richiamo religioso e quindi erano costretti a trovare degli espedienti (come usare una seconda copertina). Oltre la paura di poter esibire liberamente il proprio credo religioso e indossarne i simboli, temevano anche le possibili rappresaglie degli “arabetti”, come li chiamavano ironizzando. Perciò erano molto attenti a tutto ciò che dicevano o facevano per evitare di essere insultati o malmenati e purtroppo anche le ragazze venivano importunate ed offese.
I giovani ebrei libici per essere sicuri di tornare a casa incolumi perché vivevano continuamente nella paura, erano costretti a muoversi in gruppetti o a farsi scortare dai genitori. Gerard aveva sei anni quando lasciò Tripoli e non ricorda molto bene il rapporto con la popolazione araba, non era consapevole fino in fondo del pericolo, la sua relazione era limitata alle persone di servizio a casa sua. Frequentava una scuola cattolica come molti altri bambini ebrei, ma anche cristiani e musulmani. L’istituto, essendo privato, era “protetto”. Anche se condotta da religiosi cattolici, si aveva molto rispetto delle altre tradizioni e quindi non parlavano di cristianesimo. Ai ragazzini ebrei veniva da subito insegnato che non potevano tornare a casa da soli e dovevano essere accompagnati da adulti per evitare di incontrare gruppi di minorenni arabi che trovavano ogni scusa per provocarli, come ad esempio rubargli il pallone o prenderli in giro. Se si era soli, invece, o si scappava o si doveva fare a botte. Lui non riusciva a capire perché si comportassero in quel modo essendo cresciuto senza che i genitori facessero notare la differenza tra ebrei, cristiani o musulmani. Sapeva di essere ebreo, però non era consapevole del fatto che fosse qualcosa di sbagliato esserlo o essere di un’altra religione. Suo padre non aveva mai voluto rimarcare la differenza religiosa né voleva che si giustificasse di essere ebreo. Il padre aveva insegnato ai suoi figli di non ostentare la loro ebraicità per non creare scontri, anche perché bastava lui come provocatore, essendo una “testa calda”: tanto che arrivò a picchiare un ministro corrotto passando dei guai. Gerard anche se era piccolo non dimentica i momenti tragici che portarono al pogrom quando scoppiò la Guerra dei Sei Giorni in Israele. Fino a quel momento la sua vita scorreva serena e agiata, in una famiglia ebraica tradizionale che rispettava la casherut e le feste comandate anche se non andavano al Tempio tutti i sabati. Vivevano in una bella casa a Shara Nannini, una traversa di Corso Vittorio. Suo padre Arthur Arturo Journo era laico, ci dice, “in reazione all’imposizione da parte del fratello maggiore di rispettare in modo ossessivo la religione”. Queste sue esperienze adolescenziali le raccontò in un libro da lui scritto intitolato Il Ribelle, ma cambiò metodo quando mise su famiglia decidendo di dare un’educazione religiosa ai figli. La tradizione è così profonda che lo si deduce dai racconti di Gerard, l’uso di tenere a casa l’agnellino fino a Pesach è andato perso con il trascorrere del tempo ma rimane nel ricordo di un’usanza che molti ebrei libici avevano. Gerard si diverte a raccontare un altro capitolo del libro del padre, essendo pezzi della memoria famigliare. Come quando il padre, come si è detto, picchiò un ministro corrotto: questo avvenne quando era ancora fidanzato e doveva concludere un affare molto importante prima di sposarsi. Questo funzionario fece capire che voleva una somma di denaro e fu accontentato, ma appena la ricevette andò a denunciarlo: Arturo lo picchiò finendo in galera. Lì ci rimase poco tempo avendo amicizie importanti, ma venne espulso in Tunisia. La fidanzata, la futura madre di Gerard, era figlia di un personaggio influente nella Libia di quei tempi, Ugo Pariente. Si recò dal ministro corrotto e gli chiese di far tornare a Tripoli il suo futuro marito. Questi le chiese che centrasse lei con Arturo Journo e come mai fra tanti bravi giovani ebrei avesse scelto quel delinquente. Quando Magda Pariente ribadì che avrebbe sposato solo lui, il ministro che era stato dipendente di suo padre non potè dire di no e lo fece tornare. Con orgoglio Gerard racconta il coraggio e il cuore d’oro della madre, come quando durante una partenza vide una scena straziante. Erano anni in cui gli ebrei emigravano dalla Libia verso Israele passando per l’Italia. Il governo libico se ne accorse e impose alle famiglie di lasciare in Libia un famigliare in ostaggio. Un giorno i genitori di Gerard erano in partenza per Roma, alla dogana avevano fermato una famiglia di ebrei e le autorità pretendevano che rimanesse a Tripoli un congiunto. Con le lacrime agli occhi la madre dovette abbandonare uno dei figli e Magda vide tutta la scena immedesimandosi nel dolore di quella madre. Con fare disinvolto, Magda si mise il bimbo sotto alla gonna coperta da una pelliccia e passo passo arrivò sull’aereo. Il marito non si rese conto di niente fino a quando non si sedettero: Arturo era stupito per l’atto di gran cuore della moglie ma anche di come lo avesse messi in grande pericolo. Ma a quel punto chiamò la hostess e le spiegò l’accaduto, promettendo di pagare il biglietto aereo all’arrivo a Roma. Decollato l’aereo Magda prese il bimbo e lo ricongiunse alla famiglia fra abbracci, benedizioni e pianti di gioia. La famiglia riunita proseguì il viaggio da Roma verso Israele per rifarsi lì una vita. È forte il senso di appartenenza di Gerard, le sue radici ebraiche nei due rami familiari e il desiderio di raccontarle. La nonna materna non era ebrea ma sposandosi con un ebreo abbracciò la religione del marito con naturalezza. I Pariente avevano costruito una sinagoga nella loro casa a Homsuk a Djerba. Leonie Doshou con la figlia più piccola Magda continuò una tradizione, la sinagoga doveva essere riordinata solo dalle donne di famiglia. Il venerdì il Tempio veniva pulito a fondo, i lumini rimboccati d’olio, gli argenti lucidati e i tessuti cambiati per essere pronti per lo Shabbat. Questo venne fatto fino a quando non si trasferirono a Tripoli. Gerard nel 1990 entrò per caso in quella sinagoga. Era andato in vacanza a Djerba con degli amici e si era fermato incuriosito su un banco di un argentiere, aveva notato una grossa Stella di David e aveva chiesto informazioni. Il venditore insospettito gli chiese come mai facesse tante domande, e lui dichiarò di essere ebreo e di appartenere alla famiglia Pariente. L’argentiere era un frequentatore di quel Tempio e gli diede una chiave, per sommi capi gli indicò come arrivarci. In una stradina fu stranamente attratto da una porta, mise la chiave nella toppa e si aprì l’uscio della sinagoga. Era bellissima, tutta fatta di maioliche colorate, in terra c’erano tappeti antichi e polverosi, era in decadenza ma molto affascinante. Fu un’emozione talmente forte che in un primo momento promise a se stesso che se D-o gli avesse dato un giorno la possibilità l’avrebbe restaurata, e ancora è rimasto il suo sogno di poterlo fare. Ma poi pensò che quando i suoi nonni costruirono quel Tempio, in Tunisia c’era armonia fra le varie religioni che potevano professare liberamente e senza pericolo. Col tempo purtroppo, anche per la cattiva influenza dei palestinesi che lì vissero in esilio per molti anni, sono diventati fra i più ostili nel Maghreb e si convinse che sarebbe stato inutile vista la instabile situazione politica e la forte emigrazione di ebrei tunisini. Questa lezione Gerard la imparò dalla fuga dalla Libia: l’esperienza gli aveva insegnato che era impossibile abitare in un paese senza libertà, dove non è possibile vivere oppressi, odiati, dove si deve stare attenti a cosa si dice. Purtroppo è un ciclo storico che gli ebrei vengano cacciati, abbandonino i loro averi e ricomincino da zero in un altro Paese. Ritornando ai giorni prima della fuga dalla Libia, il ricordo si fa emozionante e drammatico: Gerard si trovava a scuola e lo andarono a prendere e portarono in tutta fretta a casa, dove subito chiusero porte e finestre. Poco dopo iniziò la guerriglia per le strade.
Erano rinchiusi nella camera da letto dove c’erano i tre lettini dei fratellini. I manifestanti urlando passavano per il Corso e per spaventare gli ebrei battevano con forza un tamburo nero con un teschio bianco, e dove passavano appiccavano il fuoco. Tutto fuori era circondato dalle fiamme e nella loro cameretta saliva il fumo dal pavimento. Nel frattempo il padre tornò a casa accompagnato da un suo amico militare con una camionetta dell’esercito. Gerard scese con la nonna materna per sprangare il portone del palazzo. Dopo una lunga settimana di attesa venne a prenderli un pullman dell’Alitalia per portarli in aeroporto e di lì partirono per Roma. Iniziò così la loro nuova vita in Italia: fu un cambiamento traumatico ma i genitori di Gerard non si scoraggiarono, superato il primo momento, si resero presto conto che la libertà di cui avrebbero potuto godere non aveva prezzo e finalmente potevano essere se stessi senza paura.
Gli ebrei di Libia sono un popolo meraviglioso, hanno potuto trasmettere la loro cultura e le tradizioni alle generazioni future. Insegnando ai figli che non ci sono beni materiali o status sociale che possa valere la propria dignità e libertà. Gerard è felice di essere andato via da Tripoli e non ha intenzione di tornarci se non come turista. Ogni 11 Giugno, anniversario della fuga della sua famiglia, scrive sulla sua pagina Facebook: ”Ringrazio D-o che mi ha fatto uscire da quel Paese”. Riflettendo sull’esodo provocato dagli arabi, ci fa notare come la Libia, mandando via gli ebrei, si sia condannata ad una vita peggiore. Basta vedere cosa gli è capitato da quel momento: dittature, guerre, corruzione e fame. Mentre gli ebrei di Libia si sono elevati trovando la libertà, dal più modesto al più intelligente, dal più povero al più ricco, hanno fatto la loro strada e avuto successo. Non si può avere nostalgia di un Paese dove regnavano la paura e l’oppressione. È un popolo di combattenti, non hanno avuto tempo di piangersi addosso per il trauma subito, dopo un primo momento di disorientamento si sono rimboccati le maniche per ricostruirsi un futuro e lo hanno saputo fare bene. Gli ebrei tripolini non hanno chiesto mai niente, hanno saputo rialzarsi da soli, all’inizio sono stati aiutati dalla Comunità ebraica di Roma ma hanno saputo contraccambiare con generosità. È stato riconosciuto da tutti che la presenza degli ebrei libici nella capitale è stato uno stimolo per gli ebrei romani ad osservare di più le regole della kasherut, anche grazie al fiorire di molte macellerie. È importante ricordare anche le numerose sinagoghe tripoline che con costanza perpetuano la liturgia tradizionale libica. Questa, incontrando quella romana, è sfociata in tanti matrimoni fra le due tradizioni ebraiche dai quali sono nati figli e figlie bellissime. Noi siamo il popolo del Libro, dice Gerard, possiamo tramandare la nostra storia di generazione in generazione per sempre, è inutile che gli arabi distruggano le sinagoghe o le trasformino in moschee o peggio come ha fatto Gheddafi costruiscano un’autostrada sopra al nostro cimitero per cancellarlo. Resterà sempre il ricordo mentre il dittatore finirà nell’oblio della storia. Come è inutile cercare di proteggere o preservare i luoghi degli ebrei in Libia perché alla prima occasione saranno distrutti, finché non saranno loro stessi a ricercare le tracce di una storia vissuta in comune. Se anche ipoteticamente la politica in Libia cambiasse la mentalità resterebbe la stessa, continuerebbero ad odiare l’Occidente e gli ebrei. Pertanto ritiene impossibile che saranno risarcite le confische dei beni degli ebrei di Libia. Come sarebbe inutile costruire lì un monumento al ricordo degli ebrei uccisi o restaurare un cimitero o una sinagoga perché, alla prima occasione, verrebbero distrutti. Gerard si sente a casa in Italia e in Israele dove ha anche lì forti legami familiari. Se dovesse fare un paragone ama l’Italia come il padre che gli ha dato l’educazione, l’indirizzo per il futuro, la possibilità di crescere e creare un lavorare. Israele, conclude, è la mamma che si ama incondizionatamente senza sapere il perché.

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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(13 dicembre 2021)