L’intervista allo scrittore Etgar Keret “A Berlino, in cerca di nuove sfide”
Davanti al più grande cantiere urbano d’Europa, nel cuore di Berlino, un direttore d’orchestra israeliano si prepara per un’esibizione molto particolare. In mano non ha la solita bacchetta, ma due bandierine. Una bianca e una blu. Di fronte non ha la solita orchestra, ma diciannove gru che aspettano il suo segnale. Un sollevatore a forbice lo porta in alto in modo che i manovratori delle gru possano vederlo. E poi inizia lo spettacolo: giganteschi bracci di metallo danzano sulle note dell’Inno alla gioia di Beethoven, sapientemente condotti dal direttore d’orchestra. Sembra l’inizio di uno dei tanti racconti ironici e surreali dello scrittore israeliano Etgar Keret. E invece si tratta di un episodio realmente accaduto: il direttore in questione era il celebre Daniel Barenboim, a cui fu affidato nel 1996 di condurre quell’inusuale spettacolo dedicato all’enorme progetto di riqualificazione di Potsdamer Platz. Quella danza delle gru era uno dei simboli di una Berlino in divenire, dinamica e proiettata al futuro. Un luogo dove sperimentare, dove dar vita a idee provocatorie e originali. Una dimensione che, trent’anni dopo, Berlino ancora conserva e da cui Keret è rimasto affascinato. Tanto da sceglierla come sua nuova casa. Dopo una vita passata a Tel Aviv, senza mai spostarsi oltre un perimetro di quattro chilometri quadrati, lo scrittore ha infatti deciso di trasferirsi nella capitale tedesca. “Berlino è come Tel Aviv sotto un aspetto: è ancora in cerca di identità. Non sa chi è ed è in costante conflitto con se stessa. Mi piace questo caos, questo balagan, anche se non è paragonabile a quello israeliano”. Di questa sua nuova e temporanea almeno nelle intenzioni vita berlinese Keret parla con Pagine Ebraiche in occasione di un breve passaggio autunnale a Milano. Ospite della Rassegna nuovo cinema ebraico e israeliano organizzata dal Cdec, lo scrittore confida di aver pensato anche al capoluogo lombardo come possibile meta del trasloco. “Cercavamo una sistemazione con opportunità e soprattutto con ottime scuole in inglese per mio figlio. Per cui avevamo ridotto la scelta a Berlino e Milano”. I costi hanno fatto propendere per la prima e così Keret e famiglia si sono trasferiti in Germania.
Come è stato ritrovarsi in una nuova casa dopo aver vissuto sempre a Tel Aviv e dopo l’esperienza del lockdown?
L’idea di casa è sempre stata al centro della mia vita. Entrambi i miei genitori sono sopravvissuti alla Shoah. E il concetto di casa, di essere al sicuro, di stare insieme, sono sempre stati cruciali per noi. Per me. Io ho cambiato solo quattro appartamenti nel corso della mia vita e non mi sono mai trasferito oltre a un raggio di quattro chilometri. Ai miei studenti dico spesso: sono come Immanuel Kant (che dalla nascita alla morte visse praticamente solo a Königsberg, ndr), solo senza il suo cervello. La pandemia ha però incrinato questa mia visione monolitica della casa.
Come mai?
Perché cominci a porti delle domande: cosa è veramente casa? È il tuo appartamento? La tua famiglia? Il tuo quartiere e i tuoi vicini? Per me è il posto dove puoi veramente rilassarti, dove abbassi la guardia, dove ti senti amato, dove sei al sicuro e ti fai meno domande sulle cose che ti circondano. Io avevo bisogno di mettere tutto questo alla prova, soprattutto a causa della pandemia. Anche se per me in realtà è stato un periodo produttivo: ho scritto e realizzato molto. Dall’altro lato però ho iniziato ad aver paura dell’immobilità. Ho vissuto isolato nella mia testa, disconnesso dal mondo che mi circondava. Sentivo che non stavo correndo nessun rischio, non c’erano attriti, non c’erano lotte, pericoli. Tutto troppo facile. Ed è una sensazione che ha avuto anche mio figlio. Mi ha detto che sentiva che la vita aveva smesso di essere una sfida. E voleva provare a studiare per un anno in inglese, integrarsi in una classe e società diversa da quella che conosceva. E così abbiamo deciso di partire.
Berlino rappresenta quindi una rottura con la quotidianità?
Temporanea, sì. Ci allontaniamo anche da tutto il rumore israeliano. Non mi interessa la politica tedesca, non sono coinvolto e nessuno qui mi chiede se sono di destra o di sinistra. A nessuno importa. Ho più tempo per concentrarmi su altro. Non significa che ho raggiunto il Nirvana. Anzi. Litigo di più con mia moglie ora. Ma l’amo anche di più. Mi sento vivo. Ho anche rotto quella normale inerzia che fa da motore delle nostre vite: quando vivi nello stesso posto, il 90 per cento delle cose le fai per inerzia. Andare al supermercato, a trovare tua madre, al caffè sotto casa, vedere gli amici. E così via. Solo il 10 per cento delle tue azioni sono scelte autentiche, sono veramente attive. Ora che sono a Berlino queste percentuali si sono invertite. E ora le emozioni sono più forti, la curiosità è più forte, ma anche le frustrazioni, i dolori.
Sono migliaia gli israeliani che hanno fatto la stessa scelta e ora sono cittadini a pieno titolo di Berlino. Anche lei vuole integrarsi nella città?
No. Vivo felicemente la mia condizione di outsider. Continuo a scrivere la mia newsletter, dove racconto anche un po’ di Berlino. Guardo tutto con curiosità, ma con un certo distacco, godendomi l’esperimento sociale che sto svolgendo con la mia famiglia. Poi sento lo stesso di avere un terreno comune con i tedeschi: da figlio di sopravvissuto alla Shoah c’è qualcosa che mi ha sempre attirato verso la Germania. La condivisione di un passato comune, anche con chi non è ebreo. Io e un tedesco, magari figlio o nipote di nazisti, ci guardiamo alle spalle e sentiamo il senso di colpa, la paura, l’odio, il dolore. Io discuto molto con i tedeschi, anche ferocemente, ma sento allo stesso tempo vicinanza e affinità. Siamo entrambi profondamente influenzati dalla storia dei nostri popoli.
Ora che si trova in Germania, c’è una parte di questa storia che vuole approfondire?
L’aspetto che mi interessa di più è la Ddr e l’oppressione della Stasi. Avendo io la lingua lunga, penso sempre a cosa mi sarebbe accaduto in un regime simile dove persone come me sparivano in continuazione. E poi tutti quei modi diversi di isolare e rompere lo spirito delle persone, creare paura nella società. Quando parliamo dei nazisti c’è quasi la sensazione che sia un evento astorico. Con la Stasi si tratta di un processo traumatico durato decenni con un popolo oppresso, depresso, costretto a vivere una vita piena di ansie e frustrazioni e allo stesso tempo indottrinato ad accettare questa esistenza corrotta. È un fenomeno che mi interessa capire, da cui imparare.
E con la lingua tedesca che rapporto ha? Non sente la mancanza dell’ebraico?
In ebraico, come in italiano, quando stai dialogando con qualcuno, l’altro non ti lascia mai finire una frase. Tu dici un paio di parole, sostantivo e verbo, l’altro già capisce e si butta in una risposta. Nessuno aspetta. Il tedesco è diverso. Ha questa cosa che il verbo e la negazione arrivano alla fine della frase. Questo fa sì che le persone si ascoltino a vicenda perché l’ultima parola potrebbe capovolgere il senso di quel che dici. Solo alla fine so se vuoi ‘picchiarmi o amarmi’. Dall’altro lato sono molto legato all’ebraico. Il mio inglese o il mio tedesco non saranno mai la mia prima lingua. Dover comunicare le mie emozioni non nella mia lingua madre mi fa sentire però più vicino ai miei genitori, che in Israele si sono trovati nella stessa situazione.
Da scrittore ci sono parole specifiche a cui è più legato?
Sì, Yalla e Balagan. Anche se non sono parole ebraiche, una è araba, l’altra deriva dall’yiddish. Insieme sono un’esortazione al caos, che è quel che mi manca d’Israele. A Berlino la gente è molto, molto ordinata e la loro energia è controllata. Quindi quest’idea di vedere la gente correre per strada e non capire perché, ridere senza motivo, prendere le cose e spostarle da un posto all’altro. Yalla Balagan, questo è quel che mi manca di più.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Dicembre 2021