Una chitarra a sette corde

Nel 1930 l’avvocato e musicista Nikolay Ivanovich Chelyapov (nato nel maggio 1889 a Pronsky, nella Russia zarista) assunse l’incarico di direttore dell’Accademia statale di Storia dell’Arte di Mosca e dal 1933 al 1936 fu presidente del consiglio di amministrazione dell’Unione dei Compositori sovietici di Mosca; arrestato il 14 agosto 1937 con l’accusa di partecipazione a una fantomatica organizzazione terroristica controrivoluzionaria, nel gennaio 1938 fu condannato alla fucilazione.
Il brillante organista moscovita Igor Dmitrievich Weiss terminò tardivamente i suoi studi nella classe di organo di Alexander Goedicke presso il Conservatorio di Mosca, dato che nel 1930 fu arrestato e deportato al Campo di lavori forzati per la costruzione del canale Mar Bianco-Mar Baltico; nel Campo, Weiss scrisse l’opera Dam n. 6 allestita dai suoi compagni di prigionia.
Dopo il suo rilascio, Weiss completò gli studi organistici nel 1941, divenne assistente di Goedicke e scrisse un libro sulla storia dell’organo ma il 5 luglio 1941 si arruolò in una milizia popolare a seguito dello scoppio della Grande Guerra Patriottica (equivalente della Seconda Guerra Mondiale nei Paesi dell’ex URSS); fu ucciso dalla Wermacht a Vyazma (Smolensk) nell’ottobre del medesimo anno.
Prolifico compositore di musica religiosa nato a Kaluga nel 1874, oggi santo della Chiesa Russa, nel marzo 1905 il prete ortodosso Georgy Yakovlevich Izvekov assunse l’incarico di salmista presso la chiesa della missione russa a L’Aia; rettore della chiesa di S. Alexander Nevsky a San Pietroburgo e cappellano nel treno ospedaliero sovietico durante la Prima Guerra Mondiale, recuperò e arrangiò i canti rituali della provincia di Kaluga e dal 1926 al 1930 fu membro della sezione dei compositori di cori della Società degli Scrittori drammatici e musicali.
Il 14 aprile 1931 fu arrestato a Mosca su denuncia del presidente dell’Unione degli Atei di Taininskoye, imprigionato a Butyrka e condannato a tre anni di esilio a Kotlas (Arkhangelsk) e nella Repubblica autonoma di Komi; il 2 novembre 1937 fu nuovamente arrestato e falsamente accusato di condurre agitazioni antisovietiche nonché diffondere voci su arresti di massa nell’URSS in varie chiese, 20 giorni dopo fu fucilato nel campo sportivo di Butovo.
Nato nel 1873 a Voronezh, il pianista Gavriil Ivanovich Romanovsky (foto) si diplomò nel 1904 presso il Conservatorio di San Pietroburgo, si esibì per l’ultima volta in pubblico il 21 gennaio 1941 – anniversario della morte di Lenin – eseguendo un programma di L.v. Beethoven e F. Schubert già eseguito nel 1919 alla presenza di Lenin; tuttavia, a fine concerto fu arrestato e condannato alla pena capitale per aver pubblicamente criticato il regime sovietico sulle condizioni di vita di contadini e intellettuali nonché sulla penuria di cibo e beni di prima necessità.
Il verdetto fu commutato in 10 anni di lavori forzati più cinque anni di interdizione dai diritti civili; morì di pellagra e decrepitezza senile il 20 gennaio 1942 presso il Campo kazako di Karabas.
Nel film Fatherland (1994) diretto da Christopher Menaul sull’omonimo romanzo di Robert Harris, in un panorama fantastorico ambientato nel 1964 (75esimo compleanno del Führer), la Germania ha vinto la Guerra e sta riallacciando relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti ma è ancora in conflitto con l’URSS sul fronte orientale; nel film, due vulnus minano il Reich.
La giornalista statunitense Charlie Maguire (Miranda Richardson, nella foto con Rutger Hauer) scopre che gli ebrei d’Europa, misteriosamente “scomparsi”, non furono riallocati segretamente in Ucraina ma uccisi nelle camere a gas; di ciò viene informato il presidente statunitense Joseph Kennedy (nella realtà, Joseph è il padre del presidente John Fitzgerald) poco prima di incontrare il Führer in una drammatica scena nella quale la giornalista, insieme a un collega, riesce a bloccare il corteo presidenziale e consegnare a Kennedy i documenti della avvenuta catastrofe umanitaria.
Il secondo vulnus si apre alla fine del film; ormai stremata dalla logorante guerra con l’Unione Sovietica, la Germania crolla e collassa nelle sue gravi e inemendabili responsabilità storiche.
È fiction, ovviamente; ma è sufficiente perché il ricercatore rifletta sulle modalità con le quali crollarono i due maggiori regimi totalitari del Novecento – nazionalsocialismo e stalinismo – nonché sul retaggio storico, geopolitico e umanitario che entrambe le dittature consegnarono alla posterità.
Riguardo alla ricerca squisitamente musicale, il destino di migliaia di musicisti – ebrei e non – nei Lager è inoppugnabile; decifrare l’intero genoma del patrimonio musicale concentrazionario è ormai questione di tempo e denaro necessario a completare le ricerche.
Ma che ne è stato dei Gulag? A quando una completa e capillare letteratura sulla fenomenologia musicale dei Gulag in lingue neolatine anziché in russo o ucraino? E delle migliaia di musicisti orribilmente torturati, fucilati, lasciati morire di assideramento, impiccati? Dove sono finite le musiche degli ebrei cancellati dai dizionari sovietici come se non fossero mai esistiti, dei preti ortodossi lasciati morire di inedia nei Campi di lavori forzati? E che dire delle musiche scritte nei Gulag da Oleg Khromushin, Ilyich Yuriev, Aleksandr Tretyakov, Anatoly Butskoy, Gaziz Almukhamedov, Pavel Val’dgardt, Aleksandr Kenel’, Sergej Protopopov, Mikhail Nosyrev, Vladimir Mikosho, Jēkabs Graubiņš, Alfred Karindi (potremmo letteralmente proseguire per ore)?
Nel 2014 la ricercatrice tedesca Inna Klause pubblicò Der Klang Des Gulag ossia il più documentato studio sulla musica nei Gulag; oggi sono reperibili le opere per chitarra a 7 corde scritte dal georgiano Matvei Stepanovich Pavlov-Azancheev in una colonia penale della Russia meridionale.
Nel giugno 2015, in occasione dei 6. Internationalen Schostakowitsch Tage di Gohrisch (Germania), l’Occidente ascoltò per la prima volta opere scritte in Gulag da Vadim Kozin e Alexander Veprik; il pianista Jascha Nemtsov eseguì in prima assoluta i 24 Preludi e Fughe di Vsevolod Zaderatsky, scritti su fogli di telegramma incollati tra loro nel Gulag di Magadan (Kolyma).
Premesso che i 12 volumi del Thesaurus Musicae Concentrationariae (sarà pubblicato nel 2025) dedicano 3.000 pagine alla musica scritta nei Gulag, abbiamo soltanto lambito la punta dell’iceberg; è ora di riportare in circolazione centinaia e centinaia di musiche scritte nei Campi sovietici, farle circolare in Occidente, dare loro una biblioteca, restituir loro la vita negata sino a pochi decenni fa.
Alla stregua delle turbine dell’ingegno azionate dai musicisti nei Lager, motori dell’intelletto e del cuore capaci di annichilire ideologicamente il Reich e tarlare dall’interno il nazionalsocialismo, ciò costituirà il vulnus dell’Unione Sovietica a prescindere dal suo destino storico consumato nel 1991.
Una vittoria postuma ma pur sempre una vittoria.

Francesco Lotoro