Meridionali a Torino

Il web è un po’ come il nostro cervello, ovvero ne usiamo in realtà soltanto una minima parte. Quella del cervello sfruttato non al cento per cento delle proprie capacità è probabilmente una leggenda, a quanto pare mai provata scientificamente. Ma il web è davvero così.
Per esempio mi è capitato di vedere su YouTube una tra le tante inchieste sui fenomeni migratori nel Nord Italia, nello specifico un’inchiesta RAI del 1961 dal titolo “Meridionali a Torino”. Stupisce, ma in realtà no, come la stessa non sia dissimile nei toni della narrazione e in tutto ciò che emerge dai molti reportage televisivi o giornalistici sugli stranieri oggi in Italia. Nell’inchiesta svolta in fabbriche torinesi e locali frequentati prevalentemente da uomini con una serie di interviste vengono indagate le cause dell’immigrazione, le condizioni di vita e lavoro, e i diversi punti di vista in merito da parte dei protagonisti e dei locali.
Viene messa in luce così la differenza di mentalità e costumi tra le due parti che assomiglia quasi a uno “scontro di civiltà” per usare un termine tanto abusato nella contemporaneità. La scarsa istruzione dei nuovi arrivati, il loro italiano stentato, la loro concezione della famiglia e della donna dove questa secondo alcuni intervistati “deve stare in casa, perché se lavorasse il marito non sarebbe più un vero uomo”. Dalla parte opposta viene raccontata la diffidenza, il sospetto o la pura intolleranza da parte dei “nativi”, le loro generalizzazioni e pregiudizi, come gli stereotipi che “i meridionali non hanno voglia di lavorare”, “che vengono per rubare”, “che quando una donna viene molestata è sempre da parte di un meridionale” e “che questi siano confusionari e abbiano l’uso facile del coltello” che insomma, anche in bocca dei più “illuminati”, “l’immigrazione forse, ma va regolarizzata e permessa solo a chi ha buone intenzioni”. Maestre delle elementari raccontano per esempio come i figli dei meridionali per quanto intelligenti “siano indisciplinati e a casa non siano seguiti dai genitori”. E poi non mancano i racconti degli intervistati sui problemi che si vivono nei paesi dai quali si fugge e dove talvolta nostalgicamente si vorrebbe ritornare. E le difficoltà vissute dagli stessi nella nuova città, le aspettative sul Nord spesso deluse, le multe per la mancanza di permesso di lavoro, e lo shock culturale. I protagonisti sostengono che i settentrionali criticano loro ipocritamente “perché veniamo qui a fare i lavori che loro non vogliono più fare e ormai rifiutano per starsene in giacca e cravatta”. Persino i sindacati, viene raccontato, spesso erano imbarazzati nel coinvolgere i meridionali nelle loro battaglie, perché questi in antitesi ai lavoratori piemontesi parevano appunto accettare senza troppe pretese impieghi pesanti e poco retribuitivi. Oltre poi a vivere nelle case più logore e incomode del nord-est della città abbandonate precedentemente dai torinesi – gli stessi quartieri operai come Aurora e Vanchiglia adesso abitati in buon numero da maghrebini.
Vengono raccontati infine storie più “edificanti” come quelle di meridionali ben integrati che ormai parlano con accento torinese, hanno sposato donne del posto, e criticano i compaesani arrivati da poco alla stazione di Porta Nuova perché “attaccabrighe e scansafatiche”. A differenza di loro questi si sarebbero fatti da soli lavorando il giorno e studiando la sera per arrivare infine a diventare almeno saldatore in una fabbrica.
Insomma niente di nuovo, le storie degli immigrati degli ultimi due secoli e il loro modo di raccontarle si assomigliano un po’ tutte. Poco cambia se si tratta di storie dove il divario è tra luoghi diversi, spesso come in queste persino all’interno dello stesso stato, o tra una differente cultura e religione. La diffidenza tra persone e tra migranti spesso era frequente anche all’interno di uno stesso gruppo esteso, come non citare tra le tante quella tra ebrei occidentali da poco assimilati e ostjuden nello scorso secolo?
Ma chi ricorda tutto questo? Neppure molti torinesi attuali ricordano più che i loro nonni venivano talvolta chiamati “napuli”. Adesso i “napuli” sono altri, e in futuro quando non lo saranno più qualcun altro sempre venuto da fuori “prenderà il loro posto”.

Francesco Moises Bassano