Ibrido e integrale

Al pluralismo delle società costituzionali, quello che sancisce eguaglianza, giustizia e libertà nel rispetto delle differenze individuali ma anche – e soprattutto – nella lealtà verso il patto di solidarietà reciproca, si contrappone invece l’enfasi sul differenzialismo («noi non siamo come voi, quindi la coabitazione sul medesimo territorio e nello stesso paese potrà avvenire solo se ci manterremo isolati vicendevolmente, frequentando solo i nostri omologhi»). Il differenzialismo, forma ingannevole di tolleranza delle differenze nel mentre ne cristallizza l’evoluzione dentro una coltre di cemento ideologico, è spesso alla radice degli autoritarismi o comunque di una nuova forma di democrazia populista, sostanzialmente illiberale e intimamente avversa a qualsiasi effettivo diritto all’eterogeneità. La campagna elettorale per le presidenziali in Francia si sta piegando, tanto per intenderci, ad una tale agenda politica, dove i fantasmi dell’«invasione», le angosce da «spossessamento», le ossessioni da «ibridazione» sono tornate ad essere dominanti nella discussione quotidiana. Per più aspetti ne determinano i passaggi maggiormente rilevanti, le priorità, i linguaggi, quindi i significati condivisi. Per capirsi, tra i diversi esempi possibili: non si parla di lavoro e di politiche dell’occupazione ma di chi «ruba il lavoro» agli autoctoni. Non è questa, peraltro, una prerogativa solo di Parigi, posto che l’intera Europa, ed in particolare quella orientale, si confronta da tempo con la predominanza di forze politiche la cui matrice è quella che si rifà all’identità etnica. Non a caso, quindi, il ricorso al termine polisemico e altrimenti politicamente poliedrico di «patriota» (ad esempio usato per qualificare anche il partigiano antifascista europeo), è stato recuperato dalla destra più o meno radicale per definire un’appartenenza ideologica nella quale l’identità individuale e comunitaria viene fatta aderire ad una radice etnica che, a sua volta, corrisponde ad uno spazio fisico specifico, circoscritto dentro un confine netto, disegnato sulle carte e sanzionato da norme di principio, presentate come ancestrali, quindi immodificabili. La politica, secondo questo indirizzo, dovrebbe incaricarsi di tutelare quell’ambito circoscritto, in qualche modo preservandolo dalle trasformazioni che la globalizzazione ha innescato o comunque incentivato. La battaglia contro l’Europa delle «tecnocrazie», la megamacchina di Bruxelles che distruggerebbe la veracità dell’«Europa dei popoli», di fatto generando una sorta di strisciante dittatura contro le «patrie» non meno che a danno dei confini sovrani (laddove invece ogni collettività nazionale dovrebbe essere libera di decidere come meglio crede «in casa propria», essendo di quello spazio il soggetto proprietario, al pari del possesso di un qualsiasi oggetto), è quindi una delle madri di tutte le guerre, insieme al rifiuto nei confronti dell’immigrazione, disegnata come una degenerazione sociale e civile (quindi, di «stirpe»). Già si è detto, più volte in queste pagine, dell’angoscia da ibridazione che si accompagna agli integralismi, non solo quelli religiosi. Questo ultimi, per come li definisce Isaiah Berlin, sono forme di «contro-illuminismo» che si accompagnano alla modernità. Non ne costituiscono uno scarto, semmai essendone la lettura rovesciata, basata sull’enfatizzazione degli aspetti negativi, o ritenuti tali, dei processi di mutamento in età contemporanea. Per il filosofo inglese, infatti, il rischio integralista riposa non solo nell’uniformazione ad un esclusivo modello sociale di riferimento, descritto come l’unico moralmente accettabile, ma anche nella proliferazione di richiami e rimandi al «diritto alla differenza» laddove questo non si incontri con l’effettiva molteplicità delle differenze che debbono coesistere nei fatti (e non solo tollerarsi faticosamente, salvo poi generare un cortocircuito quando le crisi sociali si impossessano delle collettività nazionali). Scrive al riguardo l’antropologo Douglas Holmes: «È significativo che l’interpretazione del pluralismo fornita da Berlin possa produrre una tolleranza delle differenze tra gruppi discreti, con le proprie radicate tradizioni e i propri legami territoriali. Tuttavia, quando si trova a confrontarsi con un’agenda “cosmopolita” basata su valori universali e stili di vita privi di “radici”, il pluralismo che prende forma può provocare feroci manifestazioni di intolleranza. Con il suo aderire all’idea di “incommensurabilità”, un simile pluralismo produce un’odiosa dottrina della differenza che ritiene che la diversità culturale debba essere preservata all’interno di una durevole pluralità di gruppi [in eterna competizione tra loro], fornendo in tale modo un fondamento concettuale a pratiche di inclusione ed esclusione». Ora, se le moderne Costituzioni sono a garanzia dell’inclusione sociale attraverso l’estensione della sfera dei diritti, una parte crescente delle forze politiche radicali, reviviscenti in questo nuovo secolo, ha fatto propria una lettura della società che si basa su meccanismi dell’esclusione istituzionale: «chi non è come me, ovvero non è depositario della mia differenza di gruppo, non ha diritto a sedere accanto a me e ai miei pari». Non è poi così paradossale che la «differenza» possa essere declinata come una (nuova) identità granitica, incontrovertibile, insindacabile, astorica e, proprio perché tale, tanto assoluta quando esclusiva ed escludente. Basta che ci si senta smarriti dinanzi ad un orizzonte altrimenti inteso come incomprensibile. La forza degli integralismi riposa sempre nella capacità che hanno di fornire false certezze. Granitiche come la materia insensibile di cui sono fatti.

Claudio Vercelli