Il progetto UCEI dedicato ai caregivers:
“Cultura della disabilità,
l’Italia cambi passo”
Quella dei caregivers, i familiari che assistono un loro congiunto ammalato e/o disabile, è una minoranza piuttosto consistente: ne fanno parte all’incirca due milioni di persone in tutto il Paese. Non sempre però le misure per sostenerli appaiono adeguate e neanche ben centrate sulle diverse criticità poste da questa situazione. Specie quando si parla di supporto a bambini e giovani affetti da gravi patologie.
“Manca in Italia una vera cultura della disabilità” spiega Caterina Adami Lami, presidente della onlus fiorentina Ulisse impegnata da 25 anni in questo campo. Da una collaborazione con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane è nato l’ultimo progetto, “La famiglia che cura”, realizzato con una quota della raccolta dell’Otto per Mille destinato all’UCEI. Una serie di incontri online, rivolti a familiari, ma anche ad operatori del settore medico-assistenziale, educatori e insegnanti, che ha visto al centro temi come accettazione della malattia; individuazione di un punto di equilibrio tra cura, lavoro e socialità; play therapy e lettura.
Il percorso formativo/informativo è ora interamente fruibile online sul canale YouTube dell’associazione: un patrimonio prezioso di idee e spunti. “Quella con l’UCEI – sottolinea Adami Lami, presidente della onlus – è stata una collaborazione particolarmente significativa. La strada da fare è infatti tanta. Bene quindi unire le forze”. Adami Lami parte da una constatazione: “In piazza, per i propri diritti, scendono tutti. Lo fanno gli insegnanti, lo fanno i medici, i caregivers mai…è come se fossero rassegnati per una situazione che, molte volte, li porta ad annullare se stessi. L’Italia è l’unico Paese d’Europa dove non esistono figure giuridiche che li tutelino in modo adeguato. Al Senato inoltre giace da tempo una legge, comunque non tollerabile per come è proposta. Si prevedono contributi per soli tre anni”. Ma non è, specifica, un problema di sole risorse: “È fondamentale che, chi assiste, non finisca per trovarsi nella condizione di quel nocivo annullamento di sé. Bisogna che si trovino spazi, anche piccoli, da dedicare alla propria persona. Qualcosa che aiuti a sentirsi vivi, a dare significato alla propria giornata e a quella del figlio. Un aspetto fondamentale, ma troppo spesso ai margini”. Mancano anche delle professionalità dedicate: “Non può esserlo il pediatra, non può esserlo l’assistente sociale che si occupa in genere di cose pratiche, non possono esserlo parenti e amici che cercano di dare una mano nei limiti delle loro possibilità…”.
Un gap quindi anche culturale e che ha tra i suoi effetti “un approccio di tipo pietistico fuorviante e contro il quale non smetteremo di batterci”. Il progetto sviluppato con l’UCEI aveva come filo conduttore il concetto di riparazione e un messaggio profondo associato: “Ogni ferita, ogni difetto, può essere riparato in modo da acquisire unicità e bellezza. Persone ‘imperfette’ ferite, se ‘riparate’ con intelligenza, creatività e amore, possono acquisire una perfezione che è sia unica che bellissima”.
(19 dicembre 2021)