Periscopio
Il nono cerchio dell’Inferno

Come abbiamo ricordato nella nostra nota di mercoledì scorso, il nono cerchio dell’Inferno dantesco, il più profondo, è destinato all’eterno supplizio dei traditori, la cui colpa, evidentemente, è considerata la più grave di tutte. Questo cerchio è diviso, a sua volta, in quattro zone, la più bassa delle quali, la Giudecca, racchiude i traditori dei benefattori, ritenuti i più esecrabili in assoluto. E, tra queste anime dannate, spiccano tre “super-peccatori”, che godono del sinistro privilegio di essere maciullati, per l’eternità, dalle tre mostruose bocche di Satana in persona: Giuda, Bruto e Cassio, i traditori di Cesare e Gesù, ossia di coloro che erano ritenuti i fondatori dei due imperi voluti da Dio, il terreno e il celeste. Nessuna colpa, secondo l’ottica dantesca, avrebbe mai potuto superare l’inaudito crimine compiuto da questi tre esseri nefandi, che osarono attentare alle fondamenta dei due sacri edifici voluti dal Signore per la salvezza dell’umanità.
I tre, però non sono posti sullo stesso piano. Bruto e Cassio, infatti, stanno nelle due bocche laterali del demonio, e la loro testa sporge fuori dalle orribili fauci. Giuda, invece, è collocato nella bocca centrale, con la testa dentro e le gambe fuori. È lui che ha la “maggior pena” (XXXIV. 61), e il comparativo maggiore assume evidentemente il valore più assoluto che si possa immaginare: è il più dannato dei tre dannatissimi divorati da Lucifero, così come di tutti i dannati della Giudecca, di tutti quelli del nono cerchio, di tutti quelli dell’inferno. Nessuno, finché esisterà il mondo, potrà superarlo in nequizia, nessuno lo scalzerà mai da quell’orribile ‘podio’ infernale.
Dante non si sofferma a spiegare le ragioni di questo “super-supplizio”, perché, evidentemente, non ce n’è alcun bisogno. E Virgilio, nello svelargli l’identità del traditore sbranato dalla bocca centrale di Satana, non si dilunga in alcun commento: “Quell’anima là sù c’ha maggior pena/ …è Giuda Scariotto,/ che ‘l capo ha dentro e fuor le gambe mena” (XXXIV. 61-63). Né Dante porge alcuna domanda, o fa alcuna osservazione. Ogni parola, ogni argomentazione, di fronte all’incommensurabile misfatto di Giuda, appare superflua.
Come Satana è il principe di tutti i dèmoni, si può dire, quindi, che Giuda è l’imperatore non solo di tutti i traditori, ma anche di tutti i dannati. E, se tutto l’Inferno è il suo regno, la Giudecca è il suo “palazzo reale”, il precipitato del male assoluto, la voragine della più completa perdizione e del massimo castigo. La pronuncia delle tre sillabe di quella parola infernale equivale al rintocco di una lugubre campana di morte, evocatrice della più profonda delle abiezioni.
Abbiamo sollevato, nella scorsa puntata, una difficile domanda: Dante era consapevole che la parola “Giudecca” non rinvia soltanto alla persona dell’Iscariota, ma anche a quella del popolo giudaico a cui questi apparteneva? Intendeva, col dare quel nome alla zona dei traditori dei benefattori, veicolare odio e disprezzo verso l’intero popolo giudaico?
La risposta a questa domanda non può non essere negativa: la Giudecca è il luogo della dannazione di Giuda, non del popolo giudaico. Ma questa considerazione non basta a chiudere il discorso sulla scelta di Dante, e sugli effetti che da essa sono scaturiti nel tempo, i quali prescindono anche dalle intenzioni del poeta.
Abbiamo posto poi la domanda di chi fosse, per Dante, Giuda. La risposta a tale ulteriore quesito potrà meglio aiutare a comprendere le ragioni della scelta di chiamare Giudecca la zona più profonda del nono cerchio, e anche del rapporto tra tale nome e il popolo ebraico.
Prima di ipotizzare tale risposta, però, appare utile svolgere alcune considerazioni su due questioni preliminari. Chi sia stato Giuda nella storia, e come sia stato egli rappresentato, dopo di Dante, sul piano dell’invenzione letteraria.
Cercheremo di farlo nelle due prossime puntate.

Francesco Lucrezi