Machshevet Israel
‘Al derekh ha-emet

L’espressione ebraica ‘al derekh ha-emet, che potremmo tradurre “secondo verità” (alla lettera “sulla via della verità”), compare nel titolo di due testi qabbalistici, ovviamente scritti in ebraico, forse i più significativi di Menachem Finzi da Recanati, un rabbino marchigiano attivo nella seconda metà del XIII secolo che da tempo attrae studiosi e divulgatori della mistica ebraica. L’espressione si trova a qualificare anzitutto il suo voluminoso Perush ‘al Torà, la cui prima parte è stata recentemente tradotta con il titolo Commento alla Genesi (a cura di Tiziana Mayer, ed. La vita felice 2021); mentre tre anni fa era apparsa, in Ancona, la versione italiana del Perush ‘al ta’amè ha-mitzwot, intitolata Il senso dei precetti (a cura di Giovanni Carlo Sonnino e Nehmiel Menachem Ahronee, ed. affinità elettive 2018). Per completare il quadro della riscoperta del Recanati, come spesso è chiamato per metonimia, va ricordata l’edizione critica in inglese del Perush ha-tefillot o Commento alle preghiere (a cura di Giacomo Corazzol, Aragno 2008; ne esiste una versione italiana sempre a cura di Sonnino e Ahronee, ed. Il Prato, 2016), a cui tradizionalmente è associato il Commento alle dieci sefirot, breve trattato sugli attributi divini (incluso nella classica antologia sulla mistica ebraica di Busi-Löwenthal, Einaudi 1995); pare sia andato perduto un suo Commento allo Zohar, a cui a volte rimanda, ma non tutti gli studiosi credono che l’abbia mai scritto.
Poiché della vita di questo qabbalista italiano si sa pochissimo, bisogna affidarsi alle sue opere per conoscerne il pensiero e soprattutto per indagarne le fonti, dato che il Recanati sembra sia stato il primo in Italia ad aver avuto contezza della letteratura zoharica nonché il primo, attraverso un’estesa costellazione di citazioni, a divulgare le sottigliezze esegetiche delle scuole mistiche castigliane e catalane, specie di Azriel da Gerona. A lungo considerato un mero divulgatore, senza originalità, a una lettura complessiva si rivela invece un autore molto ‘italiano’, nel senso che riesce a tener bilanciati gli slanci mistici con un approccio razionale, sempre preoccupato di spiegare e agganciare alla logica halakhica sia la speculazione sia le ragioni dei precetti, i ta’amè ha-mitzwot, che sono tema ricorrente nella filosofia ebraica. Sebbene infatti egli ami citare “dal meraviglioso e formidabile libro dello Zohar”, e dal Sefer ha-Bahir, tuttavia non manca di rimandare tanto alla letteratura midrashica quanto ai trattati talmudici, tenendo sempre in vista la ‘chiarificazione’ filologica e concettuale. Le stesse sefirot ai suoi occhi sono solo attributi divini, da intendersi come strumenti con cui la Potenza divina ha creato e sostiene il mondo, più che come ipostasi del divino in quanto tale. Per quanto suoni ossimorico, Recanati è un qabbalista razionale, o se si preferisce un filosofo mistico, ennesimo esempio di come storicamente le due vie, la qabbalà e l’emet o approccio razionale, non siano mai state davvero disgiunte.
Proprio la sua esplorazione dei ta’amè ha-mitzwot è emblematica di questo bilanciamento di approcci, a partire dalla struttura del testo: comparativamente assomiglia a un sefer ha-mitzwot; tuttavia, a differenza dell’omonima opera del Rambam o del sefer ha-chinnuk, non intende elencare tutti i 613 precetti ma ne presenta solo un centinaio (pur avendo ribadito che sono 613) perché parte dal presupposto che la maggior parte dei precetti riceve già la sua spiegazione nella Torà, mentre altri hanno un senso o una ragione evidente di per sé. In ciò il Recanati permane nell’alveo del rabbinismo classico: la Torà è un insegnamento essoterico, rivolto a tutti e da tutti comprensibile, non è un libro per iniziati. Da qui la scelta di concentrarsi su alcune mitzwot che si prestano a mostrare come la grammatica dei mistici – le sefirot, elaborate soprattutto nello Zohar – sia un tipo particolare di esegesi, teosofica o meglio teurgica (dove a quel che avviene quaggiù ‘corripondono’ eventi lassù, nei cieli superni), e non si tratti di una religione o spiritualità altra, parallela e sconnessa dall’ortoprassi ebraica. L’idea che le cose di lassù reggano quelle di quaggiù e che, di contro, che le azioni umane influenzino la sfera del divino costituisce appunto la raison d’être di ogni teurgia.
Mi piace che i traduttori abbiano intitolato quest’opera Il senso dei precetti; al contempo non posso non lamentarmi della sua scatteria editoriale (cioè: testo linguisticamente misero, che ignora le norme sulla punteggiatura, scorretto nell’impiego dei corsivi… e taciamo delle incoerenze grafiche e dei refusi). La traduzione di un’opera dall’ebraico ci restituisce il pensiero che la anima solo se la lingua di arrivo è precisa e i costrutti semitici sono ‘resi’ davvero in italiano, non solo trasposti alla lettera, perché un tale letteralismo, specie se sgrammaticato, uccide il messaggio che quella lettera intende comunicare. Tradurre è un lavoro ancora artigianale, che ha le sue regole ed esige rigore, esattezza e cura editoriale ossia una veste estetica che può fare la differenza e che, almeno per il lettore-studioso, sempre la fa. E poi, al centro dell’albero sefirotico non sta tiferet il cui primo significato è bellezza?

Massimo Giuliani, Università di Trento