Singer e il futuro dell’ebraismo

“Tra gli ebrei che sono stati sterminati da Hitler c’erano decine di migliaia di santi. Ne potevi trovare in ogni città, in ogni villaggio. Sono esistiti, e ciò basta per provare che possono tornare ad esistere. Nel cuore della giungla darwiniana, in mezzo ai massacri, vivevano individui santi che si sforzavano di non fare torto agli altri nemmeno con il pensiero, e certo non con le parole”.
Hertz Dovid Grein, uno tra i principali protagonisti del libro Ombre sull’Hudson (1957) di Isaac Bashevis Singer, è un uomo inquieto, pieno di contraddizioni, costantemente assillato dalla noia e dalla conseguente ricerca del piacere fisico. Una tendenza sempre accompagnata dal senso di colpa che lo porterà a rovinare ogni rapporto umano, da quello con i propri familiari a quello con le proprie amanti.
La New York di fine anni quaranta in cui si muove Grein sembra non essere così diversa dal suo intimo, una metropoli dove tra insegne luminose e strade trafficate si ritrovano numerosi esuli ebrei provenienti dall’Europa. I personaggi descritti nel libro appartengono tutti alla media-alta borghesia, sono ormai profondamente assimilati e lontani dalla tradizione, tormentati dal ricordo della Shoah e dalla perdita dei propri cari nei lager nazisti. Profondamente legati alla cultura moderna, gran parte di loro sono comunisti intransigenti, o inseguono idoli vari e cose futili, come arricchimento personale, dissipatezza e costante ricerca del successo.
Per contrastare tutto questo Grein conclude che l’unica ancora di salvezza o “macchina da guerra” rimasta a disposizione dell’ebreo contemporaneo è il ritorno alla piena osservanza della fede dei padri, senza nessun compromesso con la vita moderna. Non l’ebraismo riformato o quello promosso dal sionismo, il quale secondo il personaggio sarebbe “costruito su imitazione della cultura dei gentili”, ma quello “autentico” che timidamente all’epoca si stava ricostruendo a Williamsburg o a Mea Shearim. Grein sembra esplorare i due stadi esistenziali kierkegaardiani, l’enten e l’eller, la vita estetica e poi la vita etica del matrimonio, ma non soddisfatto da nessuna delle due modalità approda infine allo stadio finale, e sceglie la vita religiosa. Quasi come a profezia conclusiva delle parole di Zadok Halperin (altro personaggio presente), il quale afferma che l’uomo al contrario degli asceti per “avvicinarsi alla natura divina debba sperimentare e conoscere ogni cosa”, un’idea questa che ricorda un po’ le teorie di “discesa agli inferi per poter ascendere” dei seguaci di Shabbatay Tsevi.
Difficile trovarsi in piena sintonia con le idee propugnate da Grein o con quelle esposte dagli altri personaggi dell’opera. Sarebbe invece interessante chiedersi dove si colloca tra queste davvero l’autore. Forse oltre all’isolamento volontario di Grein il futuro dell’ebraismo per Isaac Bashevis Singer risiede anche in Patricia, la sposa non ebrea del figlio di Grein, la quale finisce per interessarsi all’ebraismo per far sì che anche i propri figli crescano ebrei, a dispetto di tutti i timori del suocero.

Francesco Moises Bassano