Ancora sulla negazione

Il negazionismo, fenomeno del quale già ci siamo occupati e sul quale – purtroppo – avremo ancora modo di esercitarci, non nasce mai da un vuoto di conoscenze, ossia da un’ignoranza dei fatti. Di questi ultimi ne costituisce semmai una rilettura ribaltata, il cui fondamento si colloca proprio nell’inverosimiglianza e nella manipolazione del loro significato, altrimenti condiviso. La sua capacità di attrazione, che è anche una delle chiavi di volta per capirne la persistenza, sta nell’offrire a coloro che intendono ascoltarlo una narrazione alternativa – falsamente problematizzante nonché intimamente mistificatoria – della storia così come dell’agire storiografico, l’una e l’altro denunciati come menzogneri in sé poiché espressione di interessi di potere “celati”. La negazione dell’evidenza quindi aderisce non solo ad un principio di rimozione, ma anche e soprattutto al bisogno di dotarsi di una lettura risarcitoria del presente, fondata su una concatenazione logica che a sua volta si basa su una razionalità autoreferenziale, inattaccabile rispetto a qualsiasi obiezione di principio e di metodo. Il negazionismo, infatti, si istituisce come un piccolo universo di significati a sé stanti, capaci di alimentarsi indipendentemente. Cerca fidelizzazioni presentandosi come una chiarificazione rispetto a questioni altrimenti incomprensibili con i soli strumenti della vita ordinaria o comunque non facilmente accettabili. Ciò facendo il negazionismo recupera, in maniera parassitaria, aspetti e frammenti del dibattito odierno (ad esempio il ruolo della memoria dei genocidi e delle vittime nella formazione di una coscienza civile), capovolgendone tuttavia il significato e brutalizzandone i contenuti. Si tratta di un qualcosa che sembra aderire, sempre e comunque, ad una transitività ideologica di questo genere: se la vittima ha il diritto al riconoscimento pubblico (e quindi alla considerazione della collettività), gli ebrei, storicamente, non sono vittime ma carnefici; in tale veste hanno creato un “mito”, quello del loro sterminio per mano dei nazifascisti; il nazismo ed i fascismi storici non si sono macchiati dei crimini che vengono loro imputati, riguardo ai quali, infatti, non esiste nessun riscontro attendibile poiché tutte le prove addotte sono errate, fallaci oppure manipolate; ne consegue, a ragion di logica, che le vittime “autentiche” della storia siano coloro che furono sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale, ai quali sono state ascritte colpe che mai hanno avuto, per una condanna, politica ed etica, senza appello; ciò comproverebbe definitivamente l’assunto di base, per il quale se c’è una responsabilità questa va invece attribuita a quanti hanno contribuito a mettere in circolazione una colossale fandonia, quella del genocidio attraverso le camere a gas e il ricorso ai forni crematori. In sintesi: Auschwitz esiste esclusivamente come finzione, la cui utilità è data, per coloro che diffondono la tesi “sterminazionista”, dalla rendita di posizione ricattatoria che coltivano di contro agli incolpevoli sconfitti; dentro e intorno a tale operazione di colossale contraffazione si celano gli interessi dell’ebraismo, agente velenoso della modernità, che opera dietro le quinte per capitalizzare a proprio beneficio il disagio collettivo. Presentarsi come vittime universali, in virtù di un inesistente sterminio, è parte dell’arsenale della manipolazione dell’«ebraismo mondiale». L’argomentazione negazionista è nel medesimo tempo circolare, ponendosi l’obiettivo non di comprovare materialmente qualcosa ma di auto-convalidarsi, e pseudoscientifica, assumendo le false vesti di lettura critica delle cose, ovvero di riconsiderazione del presente alla luce di una diversa visione del passato comune. Il quale, secondo tale criterio, verrebbe liberato dall’ipoteca della persistente menzogna giudaica, oggi tanto più forte poiché giocata sull’«olodogma», l’«olotruffa» (sono tra le espressioni ricorrenti in alcuni dei siti negazionisti), in altri termini il piatire lo statuto di vittime quando nei fatti si sarebbe semmai estorsori di verità. Proprio perché il negazionismo si blinda contro la realtà, è pressoché impossibile scalfirne razionalmente gli schemi mentali che adotta, a prova di qualsiasi riscontro che non sia quello dell’eterna ripetizione dei suoi miserandi paradigmi. Una miscela tra banalizzazione delle fonti, semplificazione della complessità, sostituzione ai nessi di processualità storica del rapporto di falsa causalità (inteso essenzialmente come imputazione di colpa per consumata e ripetuta mistificazione), ma anche di ricostruzione di un ordine cognitivo e di seduzione intellettuale attraverso il clamore: tutto ciò è alla base della visione negazionista non solo di Auschwitz, ma anche dei rapporti di forza all’interno delle società contemporanee; poiché la messa in discussione della fattualità storica dello sterminio serve a rileggere, sulla scorta di una consolidata concezione razzista dei legami sociali derivata dal nazismo medesimo, la natura del potere, i suoi fondamenti ultimi, gli elementi della sua legittimazione ieri come oggi. Non è un caso se elementi di questo pseudo-dibattito siano stati velocemente acquisiti da quell’universo complottista che oggi trova nell’antivaccinismo uno dei suoi punti di maggiore forza. Poiché al cuore del negazionismo si pone, in ultima analisi, la rottura del consenso culturale, civile, ma anche etico, che fonda la trama dell’interpretazione. È un deliberato attacco all’ordine razionale del significato. La sua pericolosità si fa tanto più accentuata dal momento che, costituendo una sorta di “verità altra”, non importa quanto fasulla, si inserisce nelle pieghe delle crisi cognitive che accompagnano le transizioni socioeconomiche. Un lasso temporale, quest’ultimo, che stiamo concretamente vivendo attraverso i molteplici riflessi dei processi di globalizzazione. La riflessione sull’attualità del negazionismo rimanda quindi anche al più generale problema di come si intenda trattare il passato comune dopo l’ultimo testimone (dei fatti della Shoah) e nell’età della post-memoria. Più in generale, ci interpella su come si voglia procedere verso un buon «uso pubblico della storia della Shoah», tanto più approssimandoci al Giorno della Memoria, evitando quei rischi di eterogenesi dei fini che si annidano nelle retoriche del dovere del ricordo, nei percorsi di banalizzazione e trivializzazione dei significati, quindi nei processi di cristallizzazione e sacralizzazione di segmenti del passato in funzione di logiche esclusivamente particolaristiche, e non invece in omaggio all’universalismo della cittadinanza.

Claudio Vercelli