La partita della vita

È il 1938. I nazisti marciano nelle vie di Vienna e nessuno si fa più illusioni. L’avvocato Josef Bartok cerca di fuggire con la moglie alla volta degli Stati Uniti ma è arrestato dalla Gestapo che lo confina nel lussuoso hotel Metropol requisito dagli occupanti. Bartok rifiuta di collaborare con le autorità naziste ma l’isolamento a cui è costretto mette a dura prova il suo equilibrio mentale, finché in uno dei rari momenti in cui il controllo si allenta riesce a rubare un vecchio libro di scacchi. È il gesto che cambierà la sua vita dando inizio alla spirale di una pericolosa ossessione. Se la storia sembra familiare è perché si ispira a La novella degli scacchi composta da Stefan Zweig nel 1941, un anno prima di commettere suicidio a Petròpolis in Brasile dove si era rifugiato dopo l’annessione nazista dell’Austria. Già adattato per lo schermo, il suo racconto torna ora al cinema in una rilettura spettacolare e toccante con il titolo The Royal Game per la regia di Philipp Stölzl (The physician, Goethe!).
Presentato di recente al Jewish Film Festival di Gerusalemme, il film approfondisce l’esplorazione psicologica in un costante rimando fra passato e presente. Dopo aver mostrato l’avvocato Bartok in procinto di imbarcarsi per Rotterdam alla volta di New York per sfuggire ai nazisti, le linee temporali s’intrecciano fino a costruire il ritratto indimenticabile di un uomo ricco, affascinante e arrogante, abituato al meglio che la società viennese dell’epoca può offrire. Precipitato dall’occupazione nazista in un abisso di incertezze, isolamento e tortura psicologica, troverà salvezza negli scacchi che si riveleranno al tempo stesso la sua condanna.
Nel corso della pandemia molti hanno riscoperto il gioco degli scacchi e il trionfo della serie tv Queen’s Gambit con Anya Taylor- Joy non è che l’ennesima conferma di una passione che affonda nei secoli e ha radici profonde e diverse nell’ebraismo. Un anno fa Pagine Ebraiche aveva esplorato questo legame in un dossier in cui Natan Sharansky, figura fra le più significative del nostro presente, ricordava come gli scacchi lo avessero aiutato a sopravvivere nei lunghi anni di prigionia in Unione Sovietica.
Come il protagonista de La novella degli scacchi, in carcere Sharansky giocava di continuo partite mentali. “Ne avrò fatte a migliaia. Mi hanno salvato dall’impazzire – ha raccontato a Pagine Ebraiche – Soprattutto in quelle interminabili giornate di isolamento: oltre 400, passate al buio, al freddo e senza nessuno con cui parlare. Grazie agli scacchi la mia mente è rimasta allenata e salda. Sono stati la mia sopravvivenza intellettuale”.

dg, Pagine Ebraiche Dicembre 2021