Storie di Libia
Rav Scialom Bahbout

Rav Scialom Mino Bahbout, ebreo di Libia, nato a Tripoli. Entrambi i genitori hanno educato la famiglia nel rispetto e nell’osservanza della tradizione religiosa, delle feste, delle liturgie, di un certo comportamento di vita compresa l’alimentazione rigorosamente kosher. Abitavano nel Palazzo delle Colonne, di fronte al Palazzo Upim. Suo padre, che si chiamava Eliahu Bahbout, era nato a Gerusalemme ed era stato mandato dall’Agenzia Ebraica ad insegnare l’ebraico nel Nord Africa. Era un professore di lingue e aveva insegnato in Libia e successivamente in Tunisia. Infine arrivò in Libia dove conobbe sua madre Maria, che era una crocerossina. Mino dedica questa intervista alla memoria di tutti gli ebrei perseguitati ed uccisi durante i pogrom del 45/48/67 e della Shoah.
Visto che era un bambino al tempo della loro permanenza in Libia non ricorda molto dei rapporti che la comunità ebraico-tripolina aveva con quella araba, sapeva solo che gli ebrei venivano osteggiati e derisi dai libici, e che spesso i ragazzi presi di mira erano costretti, per difendersi, a fare a botte con i loro coetanei arabi. E che con il passare degli anni questo odio nei loro confronti crebbe a tal punto che sua madre, vedendo ogni giorno i suoi figli correvano il rischio di tornare a casa lacerati e tumefatti, per timore che potesse succedere qualcosa ai suoi figli decise che era arrivato il momento di lasciare Tripoli. Il fratello maggiore di Mino fu il primo a partire prima per l’Italia e poi per Israele, poi partì il fratello Samuele per Torino per studiare al Collegio Rabbinico. Il resto della famiglia, (la sorella Ghila, e lui stesso) si imbarcarono per l’Italia il 25 dicembre 1953.
Tutti i ragazzi avevano studiato nelle scuole italiane e quindi, conoscendo bene la lingua, sarebbe stato più facile per loro integrarsi. Suo padre purtroppo non poté andare con loro in quanto, nato a Gerusalemme ed essendo divenuto cittadino israeliano (prima era suddito britannico), risultava avere la cittadinanza israeliana ed essere un suddito britannico. Così dovette partire per la Tunisia, che era un paese più tollerante nei riguardi delle nazionalità e delle religioni, in attesa che si chiarissero le cose politicamente, ma con l’intento di ricongiungersi con la sua famiglia e poi partire tutti per Israele. Purtroppo la sua prematura morte, avvenuta all’età di 51 anni, impedì tale riunione e la realizzazione del sogno di vivere in Israele.
Una volta arrivati in Italia e precisamente a Roma, Mino andò a studiare in collegio rabbinico a Torino per due anni, grazie all’aiuto economico di sua madre e del rav Dario Disegni. Nel 1965, come ebbe finito di studiare, ricevette una lettera dal rav Disegni che gli chiedeva se fosse disposto ad andare a Tripoli a fare il rabbino, ritenendo che come tutti gli ebrei tripolini fosse molto osservante e che per lui non sarebbe stato difficile portare avanti quella Comunità a livello religioso. Anche alcuni suoi nonni e i bisnonni, sia da parte di madre che di padre, erano stati rabbini assai importanti e stimati. Mino racconta del nonno Shalom Bahbout, di cui porta lo stesso nome, era a tal punto apprezzato che andavano tutti da lui per qualsiasi consiglio religioso (anche gli arabi). Influì anche l’ambizione del rav Disegni di preparare rabbini che avrebbero potuto insegnare agli ebrei poco osservanti come praticare e preservare le tradizioni religiose.
Sua madre Maria Zard, z.l, sorella del dayan della comunità di Tripoli, un figlio rabbino e un nipote assessore al culto, dopo aver lavorato per due anni a Venezia e successivamnte per il Joint a Roma (come insegnante delle famiglie di profughi a Grottaferrata, su richiesta dell’Unione delle Comunità aprì una pensione nella quale poter accogliere non solo docenti e allievi del Collegio Rabbinico, ma anche le famiglie ebraico-tripoline di passaggio a Roma. Le fu accordato il permesso di creare questo luogo, che lei chiamò Pensione Carmel dal nome del Monte Carmelo, molto importante per gli israeliani perché era il luogo dove il profeta Elia si era rifugiato e per il profondo significato del nome Karmel, che significa “la vigna di Dio”. Fu la prima pensione kasher a Roma e divenne un punto di riferimento importante in quanto vi affluivano tutti gli ebrei dalla Libia e dal mondo che si trovavano a Roma per motivi medici, per affari e commerci. Ed era importante per chi doveva sostare per breve tempo in attesa di trovare una sistemazione, per incontrare i familiari che purtroppo avevano dovuto lasciare a Tripoli, perché se le famiglie ebraiche non lasciavano un parente come ostaggio non potevano lasciare il paese. Ospitava chi doveva partire per Israele e rabbini e studenti del collegio rabbinico. Questa pensione ancora esiste, e alla morte di sua madre è stata portata avanti da suo fratello David e oggi dal nipote. È proprio in questa pensione che si è svolta l’intervista.
Nella pensione, dal 1967, tutti i sabati, e durante le feste della tradizione religiosa, molti giovani si riunivano insieme sulla terrazza della Pensione specie di sabato pomeriggio , per studiare la Torà: poi la signora Maria preparava qualche cibo per tutti. Molti rabbini si formarono in quella pensione. Naturalmente non vi erano solo lezioni, ma anche tutto ciò che riguardava le varie attività comunitarie. A quel tempo non c’era nessun altro luogo per gli ebrei libici dove riunirsi il sabato pomeriggio per la Seudà shelishit.
Avendo lasciato Tripoli nel ’53 Mino non ha subito il trauma del 1967. Ciò che successe durante la guerra dei sei giorni lo vissero indirettamente, perché molti loro parenti erano rimasti in Libia, e le varie notizie su ciò che succedeva tramite la TV e in particolare grazie ad Arrigo Levi, che parlava della vittoria che Israele stava conseguendo contro gli arabi, e della grave situazione nella quale si trovavano gli ebrei a Tripoli. Dalla TV non seppero però del pogrom, nel quale furono incendiati negozi, case, scuole e famiglie di ebrei massacrate. In quel momento era più importante far sapere ciò che stava succedendo durante la Guerra, sul fronte di combattimento. Mentre Levi riportava con gioia le notizie della vittoria di Israele, dalle varie radio arabe venivano diffuse notizie false e contrarie. La gravità della situazione venne alla luce con l’arrivo di quasi tutte le famiglie presenti in Libia: la pensione si confermò un luogo di accoglienza e di riferimento per queste famiglie traumatizzate, smarrite e senza più nulla. Quindi le notizie su cosa fosse avvenuto realmente le ricevettero dai profughi. Si venne a sapere di coloro che erano fuggiti e delle famiglie massacrate.
Quella pensione era come un oasi nel deserto, dove i parenti si ritrovavano e si organizzavano per ricominciare da capo, per cercare appartamenti in affitto. Fu molto importante per tutte queste persone, sradicate dal loro paese natio, per trovare aiuto e conforto. La sua famiglia, non avendo provato personalmente il trauma del pogrom, non ha trasmesso ai figli e ai nipoti ricordi negativi della permanenza in Libia. Se fosse rimasto a Tripoli, il rav di sicuro non avrebbe potuto studiare per diventare un rabbino e farlo successivamente prima a Bologna e poi a Napoli e a Venezia, non avrebbe neanche potuto frequentare l’università, laureandosi in Fisica, e per molti anni insegnare questa materia, né avrebbe potuto insegnare in Israele, dove si sentiva a casa. Anche se, precisa, si trova bene a Roma. Nessuno della sua famiglia sente la nostalgia per Tripoli, certamente se ci potesse tornare gli farebbe piacere rivedere i luoghi della sua infanzia. Ma nulla più di questo.
La vita dei tripolini in Italia è migliorata, hanno tutti fatto cose importanti e hanno trasmesso ai loro fratelli ebrei romani l’osservanza delle tradizioni religiose e del cibo kasher. Gli ebrei di Tripoli, spiega il rav, hanno sempre vissuto l’ebraismo come al tempo dei Patriarchi. Le loro usanze rafforzano la famiglia, che si trova tutta insieme riunita a celebrare degli insegnamenti importanti.
Al sesto mese dalla scomparsa di un defunto viene fatta una cerimonia dove tutti i parenti e amici ricordano cosa questi ha lasciato loro in eredità come insegnamenti religiosi, di vita, d’amore. Si leggono frasi sacre per elevare l’anima del loro caro a D.O. È un occasione per studiare le Mishnaioth, lo studio della Legge orale, e poi si mangia tutti insieme.
La religione, l’amore per la famiglia, è la cosa più importante. Non ciò che è stato abbandonato in Libia o in altri paesi dove gli ebrei hanno subito i pogrom. Al rav non interessa più tornare a vivere in quel paese, e ritiene una causa persa l’idea, in futuro, di poter essere risarciti. Anche se cambiasse la situazione politica, afferma, “purtroppo non cambierebbe la mentalità degli arabi che non hanno nessuna riconoscenza nei confronti di tutto ciò che hanno fatto gli ebrei”. Molto infatti hanno preso dalle usanze ebraiche anche a livello religioso e tutto ciò che hanno – costruzioni, strade, monumenti – è stato realizzato anche grazie agli ebrei presenti in Libia da oltre duemila anni, ancora prima degli arabi e dei cristiani. Esistono molti reperti storici antichi che testimoniano la loro presenza, ma gli arabi non lo riconoscono, anzi pian piano stanno cercando di cancellare ogni testimonianza, e trasformare ogni cosa che non possono distruggere, tipo le sinagoghe, in luoghi islamici. In Libia sono rimaste due sinagoghe, due cimiteri: secondo il rav gli ebrei non dovrebbero arrendersi per quanto riguarda questi sacri luoghi. Bisognerebbe fare qualcosa per tutelarli, come proteste e denunce per preservare ciò che rimane della presenza ebraica. Se fosse possibile costruire un monumento in memoria dei pogrom e della Shoah sarebbe molto importante farlo, ma dovrebbero essere gli arabi a prendere l’iniziativa.
Gli ebrei tripolini, da quando sono usciti dalla Libia, hanno conosciuto cosa vuol dire la la libertà, essere se stessi senza più temere di essere ebrei, o cittadini di serie B. Anzi sono felici perché il loro esempio religioso ha potuto trasmettere l’amore e il significato della famiglia, che nessuna scuola può insegnare, e l’educazione morale e religiosa, che le famiglie future, “per vivere una vita degna come ebrei”, devono trasmettere alla loro progenie.
Il rav ricorda che l’ebraismo e la sua cultura hanno fornito al mondo molti famosi fisici, scienziati, psichiatri, economisti, e sarebbe ora che anche loro ricevessero qualcosa di buono da esso. Gli ebrei nel mondo “hanno donato generosamente senza cercare di fare proselitismo, non hanno mai perseguitato nessuno, e mai provato ad inculcare la loro religione agli altri, né con la forza né con la spada o altro”. Ciò che hanno cercato di fare, conclude il rav, è dimostrare con i fatti il vero significato di cos’è l’amore e soprattutto l’accoglienza. Entrambi curano le ferite dell’anima.

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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano