La figlia unica,
note a margine

La lettura dell’ultimo regalo che ci ha fatto Abraham B. Yehoshua (La figlia unica, Einaudi 2021) non può lasciare indifferenti. Il racconto lungo è stato immediatamente tradotto in italiano dalla bravissima Alessandra Shomroni e non poteva essere altrimenti, visto che il tema centrale sembra essere l’identità degli ebrei italiani del secondo dopoguerra. Si è detto e scritto che si tratta di un tributo di affetto da parte del grande scrittore israeliano al nostro paese, e probabilmente è vero. Temo di non avere gli strumenti del critico letterario per cui non mi inoltro in un’analisi del testo, né tento una sua collocazione nell’ambito della ricca produzione di Yehoshua. I temi affrontati nel racconto sono molti, dalla condizione di figlia unica (nel titolo) alla malattia di un proprio caro, per attraversare una riflessione sulle disparità sociali e sulle dinamiche familiari (geniale, nella scrittura di Yehoshua, il riferimento continuo con molte citazioni dal libro “Cuore” di Edmondo De Amicis). Non intendo e non voglio, per mancanza di competenze, inoltrarmi in questi ambiti. Devo tuttavia intervenire a proposito di un passaggio che – pur nell’ambito della finzione narrativa – rischia di trasmettere al lettore italiano informazioni storiche non corrette. Mi riferisco al breve passaggio di poche pagine in cui si descrive il paradossale incontro fra l’avvocato ebreo protagonista del libro e il vecchio medico altoatesino che lo avrebbe fatto nascere alla vigilia di Natale del 1943 nascondendo lui e la madre partoriente in un villaggio di montagna per tutta la guerra. Yehoshua propone la figura di un medico dichiaratamente filonazista che sostiene nel racconto di non essersi comportato da “giusto” (salvando madre e figlio), bensì di aver sperato nella vittoria della Wehrmacht in Russia per poter consegnare madre e figlio al loro destino di sterminio, ma di averli al contempo nascosti per preservarsi una sorta di lasciapassare di salvezza nell’eventualità di una sconfitta di Hitler. Si tratta di un’invenzione narrativa che oltrepassa la fantasia e non trova alcun riscontro in effettive esperienze né in testimonianze. Il pericolo è che si stabilisca un dannoso precedente di confusione fra narrazione e realtà storica. Nel libro di Liliana Picciotto, che ha sintetizzato le dinamiche dei salvataggi degli ebrei in Italia fra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 (Salvarsi, Einaudi 2017), i percorsi e le esperienze vissute sono state minuziosamente catalogate e descritte. A nessun ebreo sarebbe mai venuto in mente nel dicembre del 1943 di recarsi in cerca di salvezza nell’Operationszone Alpenvorland, cioè le provincie attuali di Bolzano, Trento e Belluno che sebbene appartenessero ancora ufficialmente alla Repubblica Sociale Italiana erano di fatto annesse al Reich. Di fatto i primi arresti di ebrei avvennero proprio in quella regione e non c’è traccia di episodi di nascondimento, specialmente in villaggi piccoli. Per non dire del concetto stesso di ipotetica benemerenza postbellica per azioni di salvezza di ebrei. Sebbene numerosi fra gli ebrei che trovarono salvezza grazie all’aiuto disinteressato di civili scrivessero dopo la guerra lettere di ringraziamento che tornarono in seguito utili per il riconoscimento di “giusti delle nazioni”, è veramente difficile immaginare che una simile dinamica potesse anche solo essere immaginata da un medico nazista convinto nel bel mezzo della guerra. Tutto questo sia detto al netto del giudizio complessivo sull’opera narrativa, che naturalmente risponde a dinamiche e linguaggi che non hanno alcun bisogno della realtà storica.

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC

(31 dicembre 2021)