Settarismo
“…L’insistenza sui dati scientifici e sulla loro critica, o sulla loro difesa, fa perdere di vista altre dimensioni di pensiero e di discussione pubblica. Proprio chi è consapevole del valore dei dati scientifici dovrebbe rendersi conto anche dei loro limiti e ammettere che ci sono spazi di discussione che sono inevitabilmente politici, e non scientifici. Per esempio, la decisione su quanti e quali rischi assumersi, e quanti rischi far correre ai propri concittadini non può essere scientifica – o almeno non può derivare soltanto dalle scienze naturali. Decidere se maggiori probabilità di rischio per alcuni gruppi di cittadini possano essere compensati da migliori condizioni di vita (per esempio da maggiori opportunità economiche) per un numero molto maggiore di altri cittadini è una decisione politica – che può anche essere difesa con argomentazioni oggettive, ma non è certo una decisione che possa derivare da dati provenienti dalle scienze naturali. L’idea di ridurre tutto alla scienza naturale – sia intendendola come depositaria di tutte le verità che ci servono sia considerandola la fonte di tutti gli errori e di tutte le nefandezze – è un altro errore che dovremmo evitare. Le sciocchezze di alcuni filosofi non sono soltanto gli errori statistici che commettono, come molte altre categorie. Le sciocchezze sono anche e soprattutto quelle politiche, la scarsa capacità di argomentare in maniera nitida sulla libertà e sul bilanciamento fra varie libertà e l’uso retorico e vuoto di certe formule falsamente rivoluzionarie o emancipatorie”.
(Gianfranco Pellegrino, Vizi intellettuali e auto-contraddizioni nascoste, Rivista il Mulino, 24 dicembre 2021)
Se le cose ci sembrano più grosse di noi e non sappiamo quindi come rispondere ad esse, soprattutto quando si impongono nelle nostre esistenze con la loro forza, espropriandoci in parte o totalmente della nostra autonomia, allora è forse più consolante il rifugiarsi in un pensiero che, istigando la denuncia vuota e contraddittoria, ci dà l’impressione di avere trovato comunque un filo logico al quale aggrapparci. Un filo tanto precario, poiché esile di per sé, in quanto sospeso com’è nel vuoto della ragione, ma che ci dice che siamo lo stesso aggrappati a qualcosa che vogliamo pensare come robusto. Il cospirazionismo dei nostri tempi si alimenta di tali stati d’animo. Ma non solo esso. Il declino di un pensiero critico, che non si riduca solo alla polemica spicciola, francamente parodistica, contro i «poteri forti» (di riflesso, le fantasie deliranti che vanno dai microchip alle scie chimiche, di cui l’antivaccinismo è divenuto una sorta di collettore e di volano amplificatorio), così come la sua sostituzione con pseudo-argomentazioni di grana grossa, populista, adottate anche da opinionisti di vaglia o comunque da persone che si pensano megafono collettivo del disagio, segnano un’età, quella nella quale stiamo vivendo, dove il tratto comune è la convulsione da confusione. Convulsione sociale, poiché si teme di perdere la sicurezza trascorsa, quella che altrimenti permetteva di definire un proprio ruolo nella società; confusione in quanto il disagio stesso si esprime senza alcuna coerenza, non transitando in un qualche progetto politico ma disperdendosi in un indefinito e persistente malessere comune, come tale destinato a ripetersi nel vuoto dei riscontri. Mai come oggi, infatti, la cesura tra autorità che hanno un qualche potere decisionale e quella parte di collettività affaticata dai percorsi di mutamento in atto, è risultata così netta. Trasformandosi in una pantomima di rivendicazione di giustizia sociale, tale poiché incapace di trovare un filo logico che vada oltre le lamentazioni sulla propria condizione personale. In una età di individualismo trionfante e di intermediazioni azzerate. La somma di tanti disagi, storicamente, non ha mai dato corpo e sostanza a movimenti di trasformazione politica e civile durevoli nel tempo; semmai si sono avvicendati riflussi che hanno – paradossalmente – contribuito a cristallizzare le emarginazioni. Tutta la vicenda dell’antivaccinismo e dell’uso strumentale di discorsi contro il Green Pass si inscrive a pieno titolo dentro queste dinamiche, per nulla inedite. Posto che i temi dei vaccini, e delle certificazioni amministrative della propria condizione di vaccinati, sono poco più di un pretesto (se si preferisce un tema collettore, una cornice ideologica di riferimento dentro la quale inserire molto altro) per dare sfogo ad una più generalizzata condizione di insofferenza. Dinanzi ad un collettività percepita come altrimenti inamovibile e non riformabile per il tramite della propria volontà. In questo quadro, già di per sé problematico, si innerva quindi la questione del rapporto tra scienza e politica. Della prima abbiamo “riscoperto” la sua funzione pubblica in virtù degli effetti della pandemia. Il suo ruolo, infatti, è quello di corroborare e validare le decisioni politiche sulla gestione della crisi pandemica. In un clima di inevitabile incertezza, poste le mutevoli condizioni alle quali l’esperienza che andiamo facendo del nostro presente ci vincola. Questo delicato passaggio, che peraltro non data di certo ad oggi, fa sì che chiunque intenda argomentare a favore di una posizione avversa a vaccini e campagne antipandemiche in ragione della lotta contro la «dittatura sanitaria», debba esercitarsi nella delegittimazione del procedimento scientifico, attraverso de-contestualizzazioni, banalizzazioni, semplificazioni e così via. Fino all’ipertrofica condotta per cui se i dati della realtà sono contro i propri convincimenti, a soccombere deve essere la realtà medesima. Siamo allora già nel mondo della regressione alle pratiche magico-infantili di cui si alimentano le superstizioni e i pregiudizi, soprattutto in campo politico e sociale. Il metodo, per molti aspetti, è omologo a quello dei negazionisti della Shoah. A quest’ultima, non a caso, i no-Vax fanno riferimento quando intendano richiamare pubblicamente il loro ruolo, dichiarandosi – al pari di molti negazionisti – “vere vittime” della presunta violenza esercitata dal «sistema dei poteri forti». Il negazionismo, nel suo nucleo più profondo, infatti non solo nega lo sterminio ma dichiara che le autentiche vittime sarebbero in realtà i carnefici stessi, ai quali vengono attribuite nefandezze che non hanno mai compiuto. La partitura, per più aspetti, si ripete nel presente, dinanzi alle drammatizzazioni scenografiche di quei soggetti che rivendicano il diritto di trasformare il rifiuto della realtà in una battaglia di principi. Da sempre, peraltro, i mistificatori hanno dichiarato di essere mossi da volontà di «giustizia» e «libertà», nel mentre si adoperano in qualche modo per conculcare la prima e la seconda. La storia del Novecento è piena di riscontri al riguardo. Per ciò che concerne la politica, l’atteggiamento condiviso da quanti rivendicano il rifiuto di necessarie pratiche sociali, come le stesse vaccinazioni, è quindi quello di un generico ribellismo, che cavalca le onde del malessere per simulare una capacità di opposizione che viene invece gabellata come alternativa alle ingiustizie correnti, perpetuate dal sodalizio tra «informazione mainstream», «pensiero unico» e gli immarcescibili «poteri forti». Nel nome di una cospirazione che questi ultimi starebbero attuando per divellere l’autonomia delle singole persone. La complessità sociale, che la stessa gestione pandemica ha rivelato essere alla base dei nostri circuiti di vita associati, viene così ridotta ad una clownesca rappresentazione tra bene (il «popolo», la «gente») e il male (le «élite», la proverbiale «casta» di privilegiati, il «potere» ed altro ancora). Si tratta di un dispositivo di pensiero che da almeno trent’anni concorre allo sgretolamento delle democrazie sociali e costituzionali, avendo trovato nei vari populismi e sovranismi i suoi vettori politici più forti. Non è un caso, infatti, se diversi movimenti, gruppi e partiti già euroscettici cerchino ora, in qualche modo, di beneficiare, anche solo indirettamente, del dividendo della crisi di legittimità (ed in prospettiva di legalità) che potrebbe derivare dal prosieguo della pandemia. Rimane il fatto che il settarismo di questa logica, nel suo complesso intrisa di fondamentalismo ideologico e di ossessioni paranoiche (due elementi che da sempre vanno a braccetto, fingendosi manifestazione della «critica del potere»), è evidente tanto più quando a parlare, attraverso compiacenti mezzi di comunicazione che cercano di volgere a proprio favore il clamore di certe affermazioni, sono soprattutto personaggi di una qualche risonanza pubblica, sospesi tra narcisismo, eclettismo e autoreferenzialità. A tale riguardo, le maggiori incompetenze da parte di quanti denunciano, dagli scranni del proprio alto magistero, il consolidarsi di un «pensiero unico», si manifestano nella lettura – capovolta rispetto a qualsiasi canone realistico – dei dati statistici. La questione non è tanto quella di affermare che «la matematica non è un’opinione» ma di comprendere come alla radice di un tale stravolgimento di senso scientifico (e analitico), vi sia, ancora una volta, quell’antiscientismo che, ammantandosi di rimandi alla libertà individuale, in realtà evoca il rifugio in un mondo immaginario, fingendo che un incubo possa essere scambiato per sogno. L’onirismo delle democrazie genera i mostri del pensiero accattone.
Claudio Vercelli
(2 gennaio 2022)