Storie di Libia – Herzel Fadlun
Herzel Fadlun, ebreo di Libia, nato a Tripoli. Dedica questa intervista a tutti gli ebrei libici e alla loro sofferenza causata dal trattamento discriminatorio subito allora per mano araba. Herzel viveva con i genitori e otto fratelli in Corso Sicilia. Suo padre era il titolare di una ditta di spedizioni e trasporti. Grazie alle carrozze, ai camion e ai vari mezzi di cui disponeva la sua azienda, moltissime famiglie ebraiche poterono lasciare la campagna e i paesi intorno a Tripoli per raggiungere la capitale, dove fu allestito un enorme caseggiato denominato Fendeq Shemlali per alloggiarli in attesa di essere imbarcati per raggiungere Israele. Questa fu la più grande Aliyah mai fatta.
Era anche un nuotatore conosciuto ed aveva gareggiato in Israele con la squadra di nuoto Maccabi nel 1935. Inoltre era un membro molto attivo nella Comunità ebraica tripolina. La madre era casalinga e nella sua famiglia di appartenenza, gli Aghib, c’erano due rabbini molto noti. I rapporti con la comunità araba erano, per tutte le famiglie, spesso difficili. In tante precedenti interviste si è parlato spesso di aggressioni, molestie e ogni tipo di vessazioni e umiliazioni, come la regola che se un ebreo camminava sul marciapiede e passava un arabo doveva dargli spazio e mettersi in una posizione inferiore. Comunque i suoi genitori preferirono non far notare queste differenze ai propri bambini. Solo verso i 14/15 anni, quando si affacciò alla vita sociale, si rese conto dei problemi perché molti ragazzi subivano giornalmente vessazioni, lanci di pietre e scontri, ma lui essendo chiaro di pelle e biondino veniva scambiato per italiano, e quindi lasciato in pace.
Per gli altri suoi coetanei la situazione è stata abbastanza pesante. Sia lui che la sua famiglia non avevano grandi contatti con gli arabi, a parte il padre che aveva per obbligo un socio arabo che lavorava nella sua ditta, ma lui frequentava più i suoi coetanei ebrei e italiani. Per quanto riguarda le tradizioni ebraiche religiose in generale a Tripoli c’era una buona osservanza. I giovani comunque non avevano restrizioni per quanto riguarda la musica, i dischi arrivavano dall’Italia abbastanza velocemente, si andava alle feste a casa di amici. Molti cantanti noti, come Mina e Rita Pavone, andavano a Tripoli a fare concerti. C’era veramente un buon equilibrio tra le tradizioni del passato e la modernità, questo grazie anche ai loro genitori che hanno cercato di dare più spazio ai loro figli.
Purtroppo tutto questo terminò con la traumatica esperienza del pogrom del ’67. Herzel in quel periodo era abbastanza sereno, frequentava tanti amici tra cui il fratello e una sorella di scrive, con i quali faceva passeggiate e andava alle feste. Una discreta apertura sociale si era instaurata grazie ai cantanti italiani e ad una influenza internazionale che si stava affacciando a Tripoli, addirittura sembrava avesse aperto un pò la mentalità della comunità araba. La vita era diventata meno opprimente. Quindi almeno per lui il giorno del pogrom arrivò inaspettato. Era il 5 giugno del 1967 e si stava godendo il primo giorno di vacanza, perché aveva finito la terzo liceo e già pensava ad andare al mare che adorava e a fare passeggiate verso sera con gli amici. Quel giorno era rimasto un pò di più a letto, e vide che i sui fratelli maggiori erano ritornati a casa prima del previsto. Iniziarono a sentire molto rumore e sua madre si affacciò alla finestra, guardando a destra a sinistra per vedere da dove provenisse.
Sotto casa loro c’era un giardinetto e su questo c’era un chiosco, dove la radio era sempre accesa, e sentirono che parlava di una guerra contro Israele, di bombardamenti, quindi vedendo un movimento per strada e anche un intenso fumo e del fuoco che saliva nel cielo, capirono che stava succedendo qualcosa di molto grave. I fratellini più piccoli erano ancora a scuola ma fortunatamente qualcuno li riportò a casa e arrivò anche suo padre. Visto il pericolo, decisero di chiudersi in casa e serrarono serrande, finestre e tutte le porte anche di accesso al palazzo, cercando di far credere che non ci fosse nessuno (anche se molti sapevano che in quel palazzo vivevano numerose famiglie ebraiche). Rimasero rinchiusi fino al 27 giugno. I primi giorni alcuni amici del padre gli portarono un po’ di spesa, ma quando gli arabi videro il movimento iniziarono a minacciarli di ucciderli e quindi da quel momento si rifiutarono.
Le strade erano occupate dai tumulti dei libici, il fuoco e il fumo riempivano l’aria. Si sapeva che avevano incendiati i negozi degli ebrei. Fortunatamente i loro vicini di casa italiani li aiutarono con del cibo. L’unico loro contatto col mondo esterno era il telefono, con il quale potevano mettersi in comunicazione con amici e parenti, per avere notizie. Un giorno qualcuno bussò alla loro porta, anche se sospettoso suo padre si avvicinò e lo convinsero ad aprire. Entrarono dei poliziotti che chiesero di scegliere se andare con loro in un campo di concentramento per essere protetti o lasciare la Libia temporaneamente, per poi tornare non appena la situazione fosse migliorata. Il padre scelse la seconda opzione e decise di partire. Così i poliziotti gli dissero che avrebbero avuto bisogno dei documenti per il viaggio e che ci avrebbero pensato loro. Quindi chiesero fotografie e chi ce l’aveva le diede mentre sugli altri documenti vennero messi solo il nome e cognome. Dopo qualche giorno tornarono con i documenti e i visti per l’Italia, l’unico paese che in quel momento li poteva accogliere. I loro amici italiani andarono a comprare i biglietti e glieli portarono. Prepararono una valigia e 20 sterline a persona, solo quello era consentito. Il 27 giugno arrivarono le camionette della polizia per prelevare le famiglie ebraiche che avevano deciso di partire per portarle all’Agenzia dell’Alitalia, da dove poi con furgoni e pullman sarebbero stati portati in aeroporto. Purtroppo essendo le camionette non molto capienti, molte famiglie si dovettero dividere un po’ di qua e un po’ di là per poter entrare tutte. Mentre scendevano dal palazzo, per entrare nelle camionette, si era formata una lunga fila di arabi, ai lati della strada, che li guardavano minacciosi, ma non potevano fare nulla contro di loro perché c’era il cordone della polizia. Purtroppo le camionette non furono abbastanza e alcuni rimasero a terra in attesa che ne arrivassero altre. Non appena le camionette piene di ebrei si allontanarono, la folla si scagliò contro le persone rimaste in attesa, che fecero appena in tempo a rientrare e a chiudere il portone serrandolo mentre la folle inferocita cercava di abbatterlo con colpi violenti. Per loro fortuna il portone era grosso e robusto, di stile italiano, per cui resse alle spinte anche per il sostegno dall’interno di due fratelli maggiori di Herzel che lo tennero fermo e chiuso, permettendo agli altri membri della famiglia Barda e ai fratellini piccoli di correre su in casa e chiudersi, e lasciare il tempo giusto per loro, affinché anche essi potessero rifugiarsi dentro casa.
Finalmente arrivarono le altre camionette e li salvarono. Una volta arrivati all’Alitalia venne fatto l’appello e si resero conto che mancavano due fratelli maggiori e alcuni fratellini piccoli. Il padre preso dal panico comincio a fare avanti e indietro tra i poliziotti per sapere cosa fosse successo agli altri figli, che fortunatamente arrivarono dopo circa 20 minuti su una camionetta. Salirono tutti sull’aereo e partirono per l’Italia. Sull’aereo appena entrati nello spazio aereo italiano scoppiarono grida di gioia di felicità per lo scampato pericolo e per la sensazione di essere per la prima volta finalmente liberi, anche se avevano dovuto lasciare tutti i loro beni. Una volta giunti a Roma furono accompagnati al campo profughi di Latina, che era stato creato per i rifugiati jugoslavi, ma vista l’emergenza lo riservarono anche agli ebrei libici. Parte della sua famiglia decise dopo qualche annetto di andare in Israele, ma lui scelse di rimanere a Roma perché in Italia si sentiva a casa, finì la scuola e frequentò l’università, laureandosi in architettura. Ai suoi figli non ha trasmesso molto della sua esperienza in Libia, forse giusto qualche momento piacevole, ma non certo la sofferenza, coerentemente con la scelta dei suoi genitori. Ha preferito farli vivere sereni e tranquilli senza pensare al male subito da lui e la sua famiglia. Più che un trauma, lui come pure diversi altri coetanei, ha ritardato la creazione di una famiglia, come si usava in Libia intorno ai 24/ 25 anni, perché economicamente parlando non era ancora pronto. Ma dopo la laurea l’ambiente intorno a lui cominciò a cambiare, gli arabi iniziarono a ricattare il popolo italiano a causa del petrolio, mettendo nelle loro teste bugie e dando la colpa di tutto ad Israele. Vedere tanta gente influenzata da giochi politici filoarabi gli fece decidere di andare via dall’Italia per Israele. Là vivevano i suoi genitori, che non vedeva da anni, e sette dei suoi fratelli. In Israele con la famiglia ha dato vita ad importanti attività. Herzel ha trasmesso l’osservanza della religione ebraica tripolina, le mitzvot, il cibo kosher. Tutta la sua famiglia ha preservato le ricette della tradizione. Una volta lasciata la Libia e dovendo ricominciare da capo, non ebbero il tempo di autocommiserarsi. Anzi, con le loro doti commerciali, culturali, la conoscenza delle lingue, poterono tranquillamente creare qualcosa di veramente buono e importante. Ormai tutta la sua famiglia vive in Israele.
Per lui è molto importante preservare ciò che è rimasto di testimonianza della presenza millenaria degli ebrei in Libia, ma è anche convinto che a ciò dovrebbe pensare la popolazione libica, riconoscendo tutto ciò che hanno fatto gli ebrei anche italiani con le loro costruzioni urbane ed architettoniche. Ma purtroppo, per come ancora ragionano, Herzel ritiene che sia una partita persa. Erigere un monumento in memoria delle vittime dei pogrom del 1945/48/67, non avendo interlocutori con quali fare accordi, anche economicamente parlando, anche se cambiasse la politica a Tripoli, è inutile. L’esperienza maturata dalla sofferenza subita potrebbe insegnare alle altre culture a diventare più cosmopolite, imparare ad adattarsi, integrarsi con le nazioni che accolgono, imparando a rispettare gli altri, lasciargli i propri spazi, trattando tutti con educazione, non imponendo nulla. Cosa ha realizzato in Israele che non avrebbe potuto fare in Libia? Un po’ difficile pensarci ora, forse avrebbe anche trovato un modo di crearsi una occupazione in Libia ma il problema in quel paese, ci dice, “non era tanto crearsi una posizione, ma la mancanza di libertà e l’ostilità locale, l’essere cittadini di serie B, costantemente umiliati”.
Herzel è convinto che niente succede per caso. Sono troppi secoli che gli ebrei nel mondo subiscono umiliazioni e esodi. Ed è per lui chiaro che, visto che succede da decenni, è evidente che è in atto un piano volto a discriminare e cacciare gli ebrei da tutti i paesi musulmani e diffamarli nel mondo. In tutti questi anni, afferma, “i loro capi non hanno fatto altro che riempire la mente degli arabi di bugie di propaganda d’odio, creata ad hoc per infamare Israele, il tutto fondato sulle menzogne”.
Arafat disse che lui era un profugo e che era stato cacciato da Israele dagli ebrei, quando invece lui era nato al Cairo. Chi l’aveva cacciato? Chi gli avrebbe rubato la terra? “I palestinesi – afferma – non sono residenti locali. Per loro ammissione, sono giordani, siriani, egiziani, che come hanno visto che gli ebrei erano riusciti a far nascere grano e frutti sulla sabbia del deserto, sono immigrati in Israele, proprio per cercare lavoro e cibo”. Sarebbe, sostiene, come se i migranti che oggi entrano a migliaia in Europa dichiarassero tra qualche anno di esserne i “padroni”. Né più ne meno. Alle future generazioni vorrebbe lasciare il messaggio, di essere sempre orgogliosi della propria identità ebraica. Di trasmettere i valori insiti nei dieci comandamenti e farne una bussola per tutte le interrelazioni, di preservare le proprie tradizioni, le Mizvoth, il cibo kosher e le feste perché tutto ciò rappresenta la storia del suo popolo, le sue radici. Di rispettare il mondo ed i valori delle altre civiltà, insegnare a tutti il significato del valore della vita, la capacità di aiutare se stessi ed essere forti per poter di conseguenza aiutare gli altri. Questo, conclude, creerà una forte unione di tutti gli esseri viventi.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(3 gennaio 2022)