Machshevet Israel – Polisemia dell’esilio
Vorrei anch’io aggiungere una sobria parola in onore di Piero Dello Strologo, con il quale negli ultimi mesi ebbi alcune collaborazioni (due video per il Centro culturale Primo Levi: su Ludwig Pollak e Freud, insieme a Roberta Ascarelli, e solo tre settimane fa sulla meghillà di Qohelet). Lo faccio ricordando un suo piccolo merito – piccolo, solo a confronto delle molte altre cose importanti che ha fatto nel corso della sua intensa vita – ossia l’aver introdotto in Italia il nome del sociologo e filosofo ebreo algerino-francese Shmuel Trigano, oggi israeliano, classe 1948, traducendo un’opera che andrebbe assolutamente ripresa e rivalutata: Alle radici della modernità. Genesi religiosa del politico, apparsa in Francia nel ’84 (2a ed. ’94) e da noi nel 1999, nella collana Judaica delle Edizioni Culturali Internazionali di Genova (ECIG), la cui ricchezza di titoli rilevanti per la cultura ebraica si deve proprio all’influenza di Dello Strologo.
Nel solco di rav Touati, di Levinas, di Derrida, di Jabès e di Morin e la lista potrebbe farsi lunga, Trigano in quanto figlio dell’esilio (francese) dall’esilio (algerino) ha un posto di primo piano nel panorama del pensiero ebraico, sebbene non gli sia stato ancora pienamente riconosciuto, in particolare nel filone del pensiero politico ebraico. Siamo infatti soliti, giustamente, riempire tale spazio con le diverse correnti ideologiche del sionismo; Trigano è lì, invece, a darcene un’accezione e un ventaglio di sviluppi assai più ampi dove gioca un ruolo centrale la nozione, complessa e in ultima istanza polisemica, di esilio. Giuntina nel 2001 gli pubblicò una raccolta di saggi proprio con il titolo Il tempo dell’esilio. Anche le edizioni Belforte hanno un suo piccolo libro in catalogo. Ma a farlo conoscere da noi fu quel primo suo libro in italiano, dedicato alle matrici religiose dei concetti e degli istituti politici. Esso aveva perso per strada il titolo originario, La Demeure oubliée ossia ‘la dimora obliata’ o dimenticata, per evidenti difficoltà a renderne in traduzione le molteplici sfumature semantiche: quella dimora è, anzitutto, la Dimora ed equivale all’ebraico Maqom, ossia il Luogo, il Divino, la Trascendenza. Con il rimando implicito a Maqom, usato nella letteratura talmudica, l’impianto nonché la tessitura e i contenuti ebraici del volume appaiono chiari sin da subito; il titolo italiano non lascia supporre che il libro sia un esteso saggio di pensiero ebraico (quando invece lo è, e molto) e apre piuttosto la strada a una lettura dell’opera come fosse una riflessione sui processi di secolarizzazione che, in Occidente, hanno prodotto la modernità (e si può dire che il libro sia anche questo). Nel testo, demeure è reso con il più familiare termine di ‘casa’. Che va bene, poiché la chiave ermeneutica resta una citazione di Maimonide, che Trigano pone in esergo alla prima parte del suo volume: “In Bereshit rabbà i saggi, per spiegare la parola divina ‘una casa, il Dio eterno’ (Devarim/Dt 33,27) si esprimono così: ‘Dio è la casa del mondo ma il mondo non è la Sua casa’” (Guida I,70). Sappiamo l’immensa Wirkungsgeschichte di questa citazione midrashica nella letterarura qabbalistica e poi nel chassidismo. Qui essa è offerta come chiave della dialettica tra presenza/assenza del Divino nel mondo, tra affermazione/negazione dei suoi attributi (il ruolo della teologia negativa, che è poi quella del Rambam), e in sintesi tra divino e umano.
Il volume di Trigano percorre secoli di elaborazione ebraica per comprendere come, se da una parte sia impossibile negare, sulla base dei testi, che il mondo abbia un Fondamento, ossia la sua causa ultima in Dio, se non materialmente almeno volitivamente (è la metafora del Divino come Maqom), d’altra parte l’intera tradizione rabbinica nega che possa darsi una qualche coincidenza o equipollenza tra quel Fondamento e il mondo stesso, sancendo con tale negazione una piena indipendenza del mondo da Dio. Correttamente la sentenza midrashica è colta dal Rambam come base di ogni approccio razionale al mondo – in Francia direbbero di ogni laïcité – ed è declinata da Trigano in chiave di processo di secolarizzazione. L’esilio è la cifra di questo modo peculiarmente ebraico di intendere i rapporti tra il Divino e il mondo, ma anche tra Israele e la terra. Certo, è solo una possibile lettura. Storicamente l’esilio è stato una catastrofe politica, anzi teologico-politica. Ma tutta la storia della mistica (si pensi a Luria) e della filosofia ebraica mostra la costante volontà di dare interpretazioni più positive della galut e della condizione diasporica, dove esilio va inteso come una categoria universale, sociologica e filosofica, addirittura epistemologica (da comprendersi cioè come condizione di possibilità della conoscenza del mondo). Ripeto, è vero che il sionismo ha spostato l’ago della bussola storica dell’ebraismo recuperando al popolo di Israele la centralità della sua terra e rispolverando tutta la negatività della condizione e della categoria esilica; nondimeno il lavoro di Shmuel Trigano, almeno in quella prima fase del suo pensiero – nel tempo l’autore ha scritto decine di volumi sull’ebraismo sefardita, sul contributo ebraico alla civiltà occidentale e sulla complessità delle/nelle identità moderne – viene a ricordarci che neppure quella negatività riempie lo spettro semantico della nozione di esilio. In ogni caso, grazie Piero per quella traduzione. Il tuo ricordo è già benedizione.
Massimo Giuliani, Università di Trento