Ministeri della corruzione
Da che mondo è mondo, ossia da quando è divenuto un luogo di complesse relazioni sociali, un modo fondamentale per stabilire il proprio predominio nella lotta per il potere è quello di autoproclamarsi campioni di virtù e, quindi, moralizzatori dell’altrui condotta. Spesso le rivoluzioni si sono presentate in tali termini, decretando da subito il loro declino in un qualche inferno a venire. «Ripristinare le virtù corrotte dallo spirito dei tempi» è da sempre la bandiera dei reazionari di ogni risma, ammaliati e innamorati di un passato inesistente, falsamente raffigurato come edenico. Si tratta di un lucido delirio che, negli ultimi due secoli, in quanto fenomeno anti-illuministico, ha trovato adepti non solo in uno specifico spazio politico (le destre radicali) ma anche in altri ambiti. Ossia a partire dalle sinistre palingenetiche, ispirate ad un modello di sradicamento del «male» attraverso la distruzione dei legami sociali; per tutti, basti pensare alla tragedia cambogiana, troppo facilmente archiviata nelle coscienze dei più. L’ultimo esempio in via di successione, tra i tanti possibili, è tuttavia quello offerto al pianeta intero dal governo talebano dall’Afghanistan, per il quale il controllo sistematico del corpo delle donne è una ossessione permanente, quindi quotidiana, sospesa tra sessuomania e sessuofobia. Questi ultimi due fenomeni, segnatamente, si tengono a braccetto poiché sono forme morbose e perverse di dominio delle esistenze altrui. Due facce della stessa medaglia, basata sulle repressione dei corpi, ossia su quanto è ad essi maggiormente connaturato, la loro medesima fisicità come elemento di libera espressione dell’individualità. A partire dai corpi femminili ma, in immediato riflesso, di tutte quelle società sulle quali ricadono con inesorabile potenza. Quindi, anche di quei maschi che, credendosi “padroni” di un qualcuno ridotto a cosa, sono in realtà i beoti schiavi di una coalizione di potere che li usa a proprio esclusivo beneficio. Il moralismo “rivoluzionario” è una vera e propria falce il cui obiettivo è di livellare verso il basso, anzi, verso un qualche abisso, i residui aneliti di emancipazione. I moralizzatori in età contemporanea stanno alle nostre società, di qualsiasi stampo esse siano, come dei virus. Ci sia concessa la pur discutibile metafora biologica e sanitaria: al pari dei virus, infatti, nei momenti di mutamento, replicano e infettano il “corpo sociale” colpendone le fragilità. Come tali, non sono per nulla estranei alle società medesime ma ne patologizzano pensieri, opinioni e infine condotte collettive. Generano una sorta di febbre isterica, che cerca a tutti i costi un oggetto sul quale soffermarsi, per proclamare le proprie ragioni distruggendo il diritto all’indipendenza collettiva. Ovvero, sempre a rigore di metafora, alla salute psichica comune (e non solo). La «morale» pubblica, da questo punto di vista, è l’antitesi della libertà e della giustizia. Ne costituisce semmai la pantomima, lo scimmiottamento da parte di tristi e squallidi clown che si ergono al potere. Non fanno ridere, non avendo peraltro alcun senso dell’umorismo, impegnati come sono, mascherandosi dietro una qualche «missione» da adempiere, a valorizzare se stessi, il proprio gruppo, gli interessi corporati (e inconfessati) di cui sono gelosi titolari. Poiché dietro le morali pubbliche palingenetiche c’è sempre un rapporto di potere che si basa sulla vessazione.
Claudio Vercelli