Storia di Libia – Giorgio Ortona
Giorgio Ortona, ebreo di Libia, nato a Tripoli. Giorgio è un artista di fama internazionale e nel 2011 ha esposto le sue opere alla Biennale di Venezia. Attraverso la sua arte, ispirata a volte anche alla vita quotidiana, a Tripoli o alla sua famiglia, ai luoghi in cui ha vissuto, le piazze, i palazzi, mantiene viva questa Comunità. E fa sì che possa trasmettere la storia e quanto accadde durante la Guerra dei 6 Giorni. Giorgio elabora attraverso l’arte un ebraismo e una memoria viva, priva di retorica, là dove le scelte estetiche vivificano un mondo in parte scomparso e riproposto in dettagli minimalisti o nei ritratti familiari che restano a testimonianza indelebile. Questo è il grande valore della pittura: mantenere vivo il ricordo della presenza della Comunità ebraica in Libia. Tutta la sua famiglia, parenti, nonni, genitori e i due fratelli sono nati a Tripoli. Abitavano davanti all’Ambasciata italiana, in via Shara Huaran, in una piccola palazzina di due piani, con un terrazzo meraviglioso affacciato sul mare. Il famoso lido, bellissimo, dove loro, sei mesi all’anno, si recavano tutte le mattine. Al tempo del pogrom aveva circa 7 anni e frequentava la scuola italiana, aveva come amici solo coetanei italiani, non ricorda che né lui né la sua famiglia avessero particolari rapporti con la comunità araba. Rammentava solo che li chiamavano “arabetti”, presumendo che loro ci chiamassero “ebreucci”. Ad eccezione di suo padre che, essendo Direttore del Corriere di Tripoli, aveva anche rapporti di amicizia con i colleghi arabi, questo anche grazie alla sua mentalità aperta e “laica” che gli permetteva di guardare le persone nel loro valore al di là di nazionalità o religione. E con questo modo di essere aveva cresciuto anche i suoi figli, preferiva che essi interagissero con il mondo in maniera spontanea, senza sentire differenze di etnia o religione, e senza nutrire paure nei confronti di altre popolazioni, in questo caso degli arabi. Viveva la sua infanzia come tutti i bambini, in maniera abbastanza leggera, spensierata, un modo di fare che ha conservato anche nella sua adolescenza e in età matura. L’unica cosa che lo colpì, aprendo un’enciclopedia nuova di zecca, la notissima “Garzantina”, sfogliando la parte geografica alla lettera “I”, “Israele”, fu la geografica della nazione, completamente coperta di nero. Era stata cancellata, come se non esistesse. E rimase allibito nel vedere che su una enciclopedia qualcuno si fosse disturbato a rovinare la pagina, colorando di nero la cartina. Non ne comprendeva il motivo, ma poi non ci pensò più. Nella sua famiglia la vita scorreva normalmente, come in qualsiasi nucleo familiare ebraico tripolino. A casa sua c’era un modus vivendi un po’ particolare, in quanto suo padre era completamente laico, e lasciava tutti liberi di vivere come meglio credevano, mentre sua madre aveva un alto livello di osservanza delle tradizioni ebraico libiche, della liturgia, delle Mizvoth. I bambini, racconta, vivevano tutto ciò in una maniera un poco distaccata. Per loro quindi la parte ritualistica si trasformava in un momento gioioso, come quando il venerdì sera dello Shabbat tutta la famiglia si riuniva, parenti compresi, e quindi venivano i cuginetti, giocavano a pallone, si divertivano. Poi, se facevano danni, davano sempre la colpa a lui. C’era molta unione tra loro, venivano ospitati a loro volta anche nelle loro case fuori Tripoli, come quando andavano dalla zia Yvette a Malta. Il giorno che scoppiò la Guerra dei 6 Giorni come tutti dovettero chiudersi in casa, serrando porte e finestre. Per Giorgio non fu un momento traumatico, anzi quelle finestre chiuse gli fecero immaginare di essere in una capanna indiana. Durante quei giorni in cui rimasero chiusi a causa dei disordini, solo suo padre osava uscire per andare ad acquistare del pane e degli spaghetti Barilla (l’unica cosa che trovavano in giro, visto che gli arabi avevano incendiato tutti i negozi), che mangiavano al burro, o aglio, olio e peperoncino. Solo gli ultimi giorni la mangiarono scondita, perché erano finiti sia il burro che l’olio. Abitando di fronte all’Ambasciata, nella cui sede lavoravano alcune persone che lui conosceva, il padre chiese aiuto, per lasciare la Libia. La sera della partenza, erano circa le 21, sua madre gli stava facendo il bagnetto, quando entrò dicendo: “Presto, presto, scappiamo”. Quindi la mamma lo asciugò e lo vestì velocemente, e di corsa con una valigia e 20 sterline in tutto, le uniche cose consentite, scapparono al buio, salendo su una jeep dell’Ambasciata e andando all’aeroporto. Una volta arrivati lì, l’hostess fece notare che i posti riservati sull’aereo erano 4 mentre loro invece 5, e non era possibile imbarcarsi con una persona in più. Non c’era il posto, quindi uno di loro doveva rimanere. Il padre le disse “Allora rimango io!” e vista la grave situazione l’addetta all’aeroporto chiuse un occhio, e tutti si imbarcarono e atterrarono a Roma, a Fiumicino. Profughi senza possedere più nulla, sua madre chiese a una persona un gettone per telefonare e così poterono chiamare la zia Yvette, che li andò a prendere, e a lungo rimasero a casa sua. Non fu facile a Roma con un padre disoccupato, per 5 anni, e per questo sua madre, nel ’69, contro il volere del marito decise di ritornare in Libia, per vedere se poteva riavere qualcosa degli stipendi arretrati del marito, o altro che potesse riportare in Italia per andare avanti. Fu un viaggio inutile e rischiò molto per tornare a mani vuote. A Tripoli la sua infanzia era stata molto piacevole, aveva vissuto una vita serena e i suoi genitori cercarono di non enfatizzare in negativo le cose che succedevano, per non trasmettere ai loro figli la paura e i traumi delle vessazioni che gli ebrei avevano subito fino al 1967, tanto che anche il giorno dell’esodo lo visse come un gioco, una nuova avventura. Quella cioè salire su di un aereo per la prima volta, perché quando andavano a Malta dalla zia prendevano la nave.
Ciò che ha vissuto durante il pogrom non lo ha mai raccontato a nessuno, anche perché ha sempre frequentato un ambiente non ebraico. Inoltre ogni volta che usciva il discorso sul conflitto religioso e politico ebraico-arabo, di certo Israele non ne usciva vittoriosa, anzi al contrario. Scoprendo che lui era un profugo ebreo tripolino, spesso era costretto a giustificarsi, perché i suoi interlocutori si permettevano di giudicare i fatti senza averli vissuti personalmente, e spesso quasi deridendo questa “sofferenza” subita dagli ebrei durante i pogrom. Non avendo subìto personalmente questo trauma, non se la sentiva ora più di tanto di contraddirli e buttarsi in un discorso articolato nel quale i suoi interlocutori, dall’alto del loro piedistallo, basato sul “sentito dire”, dalle opinioni filo/arabe a prescindere, che si ascoltavano in TV, capendo che avrebbe creato solo ulteriore astio, non una serena base di ragionamento. Sentendo questi discorsi fatti da persone dal loro divano di comodità, e che si permettevano di giudicare gli altri, senza aver provato loro quel tipo di esperienze, non riusciva a smentirli per evitare conflitti e preferiva parlare di altro. Anche perché in effetti lui non aveva sofferto. Anche se spesso, ricordando le vittime dei pogrom in Libia, in special modo quello del 1967, sapeva in cuor suo, sarebbero potuti essere proprio loro, i suoi genitori, i suoi nonni tra quelli uccisi. Ed invece erano stati fortunati ad avere salva la vita. Tra i detti ebraici ce n’è uno che dice di non giudicare mai il prossimo, se prima non hai vissuto le sue stesse esperienze , anche perché forse un giorno potrebbe accadere anche a te.
Parole che dovrebbero essere ricordate da molti prima di sentenziare giudizi, senza avere alcuna esperienza. Egli è sereno in Italia, e non prova nessuna nostalgia di tornare a Tripoli, anzi il solo pensiero lo terrorizza. La Libia ha ispirato i suoi quadri, ha sempre usato i suoi ricordi della sua vita a Tripoli, e poi attraverso Google, guardando dal satellite Tripoli, in una sorta di viaggio virtuale, ritrasformandolo in ricordi profondi che esprime nei suoi dipinti. In Italia ha potuto studiare, laurearsi in architettura, e in Spagna pittura, e queste sue esperienze importanti di vita non le ha mai divise in due modi diversi di esprimersi e o di creare, ma le ha unite, in un’ unica visione, che utilizza sempre nelle sue opere. Certamente Giorgio ritiene che tutto ciò che fa parte della vita e della tradizione ebraica tripolina vada preservato come la liturgia, le tradizioni, le mizvoth, il cibo kosher. Ma, aggiunge, se dovesse tramandare lui queste tradizioni si annoierebbe moltissimo. Personalmente si è trovato sempre bene ovunque, soprattutto nella maturità, in qualsiasi luogo sia andato. Si è sempre integrato, ed è sempre stato in grado di ricostruire il proprio habitat dappertutto. Per quanto riguarda il lottare contro l’ingiustizia della confisca dei beni subita a Tripoli la vede una causa persa, perché purtroppo la mentalità del posto non cambierà mai, non ha fiducia in quel mondo e nei suoi governanti, anzi è convinto che sarebbe ora che i tripolini la smettessero di vivere nel passato, anche se tale ingiustizia non deve andare in prescrizione, non deve essere dimenticata. Tutti dovrebbero cercare di guardare avanti, cercando di vivere la propria vita dall’oggi. Se in futuro in Libia cambiassero mentalità, diventando più tolleranti e rispettosi del prossimo, forse si potrebbe trovare una via di dialogo per risarcimenti o riconoscimenti della presenza storica della comunità ebraico-libica. Per il resto la vita degli ebrei a Tripoli era invivibile, anzi molti sono grati per ciò che è successo, perché una volta usciti hanno compreso il significato della parola libertà, come ebrei e come esseri umani, liberi di fare tutto ciò che desiderassero fare. In Libia loro non sapevano cosa fosse la libertà, di certo nessuno adesso scambierebbe ciò che ha conquistato per rivivere in quel paese. Vista l’esperienza, rimarrebbero sempre con il timore, perché comunque non ci si potrebbe fidare di un governo libico. Se invece si potesse un giorno fare qualcosa per preservare i luoghi rimasti ancora in piedi come le due sinagoghe e due cimiteri sarebbe di buon auspicio. Ma, aggiunge, chi lo farà “visto che non c’è più nessuno, sono cose che ormai devono morire lì, non si possono portare via”. Certo sono testimonianze storiche della presenza millenaria degli ebrei, in Libia, ma visto che al momento è impossibile creare dei presupposti per attuare una salvaguardia di tali luoghi, sarebbe il caso di non pensarci troppo, e lasciare che si preservino da sole. Se in futuro si potesse fare qualcosa ben venga anche se la priorità, per lui, sarebbe quella di riportare in Italia le ossa dentro agli scatoloni messi in un magazzino a Bengasi, dopo che Gheddafi aveva fatto smantellare il Cimitero Monumentale ebraico per costruirci sopra una autostrada. Se un giorno in Libia dovesse cambiare la situazione politica, se gli ebrei potessero tornare, lui non tornerebbe di sicuro. Non prova nostalgia, anzi. Prova terrore al pensiero di tornarci. Egli non può dimenticare i video di qualche anno fa nei quali gli estremisti islamici sgozzavano tutte quelle persone vestite con la tuta arancione, e la spiaggia e il mare erano sporcati dal sangue delle vittime. Tripoli ormai nella sua mente si è trasformata in quel luogo orribile di morte e lui, ancora prima che succedessero quei fatti, queste cose le aveva sognate. Quindi cosa ci si può aspettare da persone che con tale ferocia hanno eseguito quelle decapitazioni… che diano il permesso di costruire un monumento in ricordo delle vittime dei Pogrom del 1945/48/67 e della Shoah? Poi siccome lui i monumenti in memoria li equipara alla ritualistica che non ama, ritiene anche del tutto inutile costruirli. Il ricordo si trasmette attraverso la parola, o attraverso altri mezzi, come ha fatto lui, usando la sua pittura, la sua arte per ricordare ciò che è stato, i suoi quadri girano per il mondo, come anche queste interviste, affinché tutti possano sapere la storia legata alle vicissitudini degli ebrei tripolini e di come si svolgeva la loro vita quotidiana. Secondo il suo parere, la cultura ebraico tripolina, espressa nella tradizione religiosa, e l’esperienza traumatica vissuta in Libia, non è sono troppo dissimili da altre culture che sono state a loro volta discriminate. Essa può solo raccontare ciò che ha vissuto e non insegnare ad altre culture, perché ognuno ha vissuto le proprie esperienze. E si impara dalle proprie esperienze vissute, non si possono “insegnare” agli altri, perché ognuno percorrendo la propria strada personale può trarne insegnamento. Per esempio se lui fosse rimasto in Libia, magari non avrebbe realizzato una vita piena come ha fatto in Italia, laureandosi in architettura, frequentando l’accademia d’arte e affermandosi nel mondo. Forse si sarebbe dedicato comunque all’arte ma sicuramente non avrebbe raggiunto il livello che ha raggiunto poi, non si sarebbe potuto formare. Giorgio essendo laico e non legato alla religiosità è sempre stato convinto che sia molto importante un buon rapporto tra esseri umani, privo di etichette. Non si sente di insegnare niente a nessuno, può solo trasmettere la sua di esperienza, le conclusioni alle quali è arrivato, e magari condividerle con altri. E se potesse lasciare un messaggio alle future generazioni direbbe di non rimpiangere mai il passato, anzi di essere grati anche delle cose negative, che permettono di poter ricominciare, creando magari cose più importanti di quelle che siamo costretti a lasciare. Ricominciare, e poter essere veramente se stessi, diventando altro, un’altra versione di se stessi, certamente migliore.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(10 gennaio 2021)