Periscopio – Giuda in letteratura
Avendo detto, nelle scorse puntate – a proposito della figura di Giuda nella Commedia, e del problema se il nome Giudecca (la zona più profonda dell’Inferno) debba essere fatto derivare solo da quello dell’apostolo traditore, o non anche, più in generale, dall’insieme del popolo giudaico -, che il significato del personaggio, nella visione dantesca, deve essere analizzato su tre livelli distinti: teologico, storico e artistico.
Avendo già svolto delle osservazioni sul primo e sul secondo terreno, chiediamoci in che modo la raffigurazione dantesca si inserisca nel più generale filone delle rappresentazioni dell’apostolo nel mondo dell’arte.
Fino al tempo di Dante, com’è noto, e anche per almeno cinque secoli dopo la morte del poeta, a prendere in considerazione il personaggio evangelico è stata esclusivamente l’arte sacra, in quanto la poesia e la narrativa non lo hanno mai eletto a oggetto di interpretazione artistica. Esso è stato invece raffigurato, innumerevoli volte, nell’iconografia evangelica, in particolare negli affreschi e nei mosaici sull’ultima cena, sistemati nelle chiese di tante città d’Italia (e del mondo), molte delle quali, certamente, furono viste da Dante. Giuda, come ebbi modo di notare, in altra sede, appare sempre accanto a Gesù e agli altri undici apostoli, e quasi sempre compare leggermente più in basso degli altri, spesso con in mano un sacchetto, contenente i trenta denari, nell’atto di guardare il suo maestro con uno sguardo oscuro e obliquo. È sempre molto facile distinguerlo, perché è l’unico dei dodici, ovviamente, senza aureola. Giuda è sempre parte del gruppo, è un tassello della storia, da solo non esiste, non può essere raffigurato.
È molto verosimile che questa iconografia (raffigurante un Giuda isolato e diverso, più in basso degli altri) abbia influenzato Dante, che lo pone in una posizione decisamente unica, nel posto più in basso di tutti.
Nessuna opera letteraria, invece, può avere dato ispirazione al poeta, perché la letteratura avrebbe cominciato a interessarsi al personaggio solo a partire dal consolidamento del genere del romanzo, e dall’avvio dell’emancipazione dell’arte dall’egemonia ecclesiastica, ossia dalla metà del XIX secolo. Prima, la Chiesa non avrebbe permesso che si trattasse con libertà artistica di questioni attinenti a importanti verità di fede.
Abbiamo così le opere (romanzi storici, racconti, tragedie e altro) di Ferdinando Petruccelli della Gattina (1866), Enrico Pea (1918 e 1931), Giovanni Papini (1921), Federico Valerio Ratti (1923), Paul Claudel (1933), Giovanni Lanza del Vasto (1938), Jorge Luis Borges (1944), Thomas Mann (1943-1947), Bruno Lucrezi (1948-1953, pubblicato postumo nel 2014), Henryck Panas (1973), Walter Jens (1975), Giuseppe Berto (1978), Pierre Bougade (1956-1985), José Miguel Ibànez Langlois (1986, ed. it. 2002), Roberto Pazzi (1989), Enrico Ronzoni (2002), Jeffrey Archer (2007), Luca Doninelli (2014), Amos Oz (2014).
Traggono spunto, tali opere (almeno qualcuna di esse, e almeno in parte) dalla rappresentazione di Dante?
La risposta deve essere negativa. No, la letteratura contemporanea, dell’ultimo secolo e mezzo, non vede in Giuda il precipitato del male assoluto, il “non plus ultra” dell’umana nequizia. Tenta, anzi, di fare, in qualche modo, da contrappunto alla teologia, cercando, per vie diverse, di promuovere qualche forma di ‘riabilitazione’ dell’apostolo, rappresentato come il solo che avrebbe davvero capito e servito il suo maestro, fino alle estreme conseguenze, oppure come colui che avrebbe visto qualcosa che agli altri sarebbe rimasto celato, e si sarebbe volontariamente sacrificato per imprimere alla storia una svolta tragica, ma necessaria.
Netta eccezione, rispetto a questa ricorrente ‘riabilitazione’ di Giuda, il ripugnate ritratto del traditore, “venditore di sangue”, contenuto nella Storia di Cristo di Giovanni Papini, del 1921, che, proprio con quest’opera, passò dalle posizioni di un estremismo anticlericale a quelle di un gretto fondamentalismo cattolico (anche se il suo spirito indipendente non gli risparmiò gli strali della stessa Chiesa), felicemente intrecciate con un’entusiasta fede fascista e un altrettanto zelante antisemitismo.
Resta il fatto che il nome di Giuda ha ininterrottamente irradiato, per lunghi secoli, un oscuro sentimento di odio e disprezzo, che è andato a espandersi molto al di là di una singola persona. Come ha mirabilmente spiegato Giacomo Todeschini, nel suo Come Giuda (2011), l’apostolo è diventato, agli occhi di molti, “il capostipite dei deicidi”, a partire dal quale si determina “una dilatazione semantica del termine Giuda”. E non pochi commentatori della Commedia hanno visto, nella Giudecca, non solo il nero regno di Giuda, ma anche la città infernale dei giudei, speculare alle Giudecche terrene in cui è stato recintato, per lunghi secoli, il popolo ebraico.
Dante non può essere considerato personalmente responsabile di tale “dilatazione semantica”, ma non si può comunque negare che il XXXIV Canto dell’Inferno, al di là delle sue intenzioni, abbia dato ad essa, per vie traverse, alimento.
Francesco Lucrezi