Storie di Libia
Rav Yoseph Pino Arbib
Rav Yoseph Pino Arbib, ebreo di Libia. L’intervista si svolge in via Cesare Balbo in due luoghi diversi. Nel primo Rav Yoseph ha abitato con la sua famiglia, nel 1967, dopo il pogrom che aveva causato la loro partenza forzata. Suo padre aveva trovato un appartamento in quella strada dove una famiglia non ebraica gli aveva affittato due stanze. Per il meraviglioso ricordo dell’accoglienza ricevuta e per l’amore per il Tempio di Via Balbo, del quale è diventato il rabbino, è molto legato al ricordo di quel nuovo inizio.
All’Oratorio Di Castro, inaugurato nel 1914, dieci anni dopo il Tempio Maggiore, arrivarono tutti gli ebrei fuggiti da pogrom e persecuzioni, nonché profughi dalla Polonia e dalla Russia che volevano raggiungere i loro parenti o fare Aliyah. Qui venivano smistati e poi aiutati a raggiungere i luoghi prescelti, in primis Israele. Nel 1967, infine, arrivarono anche gli ebrei di Libia.
Questo luogo fu costruito come donazione alla Comunità ebraica dalla moglie di Salvatore Di Castro, prendendone il nome. All’interno, oltre a tutti gli arredi, le suppellettili e gli oggetti sacri tipici di una sinagoga, in occasione del centenario nella Sala d’ingresso sono stati collocati vari pannelli a testimonianza della storia dell’Oratorio e delle sue caratteristiche architettoniche. Si trovano una lapide in memoria di Salvatore Di Castro e Grazia Pontecorvo e anche un’altra con i nomi dei Caduti della Brigata Ebraica che, durante la II Guerra Mondiale, si arruolarono come volontari nelle Forze Armate Britanniche per liberare l’Italia dai nazifascisti: qui ebbero il loro quartier generale romano. Una testimonianza meravigliosa che troviamo all’interno della sala principale della sinagoga sono le enormi vetrate in mosaico donate dalla famiglia Haggiag e realizzate dal pittore Aldo Di Castro, recanti simboli ebraici della tradizione.
Il Rav Joseph Pino Arbib è nato a Tripoli nel 1954 e ha vissuto in Libia fino al Giugno 1967. Non aveva dei rapporti molto definiti con la comunità araba, si limitava solo il venerdì pomeriggio a recarsi dal fornaio arabo, a ritirare il pane che la sua famiglia, come molte altre, portava a far cuocere al forno. Ricorda pure che a scuola il suo professore di arabo puntualmente, ogni giorno, non perdeva occasione di insultare gli ebrei e gli italiani senza alcun motivo. Quindi indirettamente da suo padre o da persone più grandi era a conoscenza delle difficoltà attraversate dagli ebrei e dell’eterna paura nei confronti degli arabi: il timore di essere maltrattati, malmenati, oltraggiati con sputi o lancio di sassi.
In pratica la comunità ebraica viveva in continue restrizioni riguardo al frequentare luoghi come il corso, o andare a fare passeggiate, perché molto spesso i ragazzi e le ragazze venivano disturbati, insultati e malmenati dai libici. Quasi nessuno aveva dei buoni rapporti sociali con gli arabi, a parte quando andavano a fare compere nei loro negozi. Nonostante la comunità ebraica venisse continuamente vessata, tutti quanti indistintamente conservavano una ligia osservanza delle tradizioni religiose, le Mitzvot, le Feste, il cibo Kosher, lo Shabbat al Tempio, le regole. Per quanto riguarda il Pogrom del Giugno 1967, già da un pò di tempo gli ebrei vedevano che c’era qualcosa di diverso dal solito. C’erano dei notabili arabi che si aggiravano per i negozi ebraici, esigendo donazioni abbastanza cospicue da mandare ai “fratelli palestinesi”. I commercianti ebrei non sapevano cosa fare. Ricorda che si riunirono per decidere come comportarsi, certamente con potevano rifiutare ma non volevano aiutare i nemici di Israele.
La mattina che scoppiò la guerra nel negozio del padre entrarono alcuni loro conoscenti arabi, i quali gli dissero che avrebbe fatto meglio a non aprire e ad andare subito a casa chiudendosi dentro. Iniziarono molti disordini e i libici armati di bastoni, coltelli e badili iniziarono a girare per la città incendiando i negozi degli ebrei, cercandoli per ucciderli.
In casa lui e la sua famiglia serrarono le finestre per evitare che il fumo e la puzza degli incendi impedisse loro di respirare. Come se non bastasse la polizia, per disperdere i facinorosi, iniziò ad usare i gas lacrimogeni. Dovettero usare asciugamani bagnati da mettere sul viso. Erano terrorizzati ma ancora pensavano che fossero le solite manifestazioni di intolleranza che spesso terminavano dopo pochi giorni. Ma quando arrivò loro la notizia che davano fuoco ai negozi capirono che la cosa era molto più grave. Anche il non sapere per quanto ancora dovevano rimanere chiusi in casa e l’incertezza su come sarebbe finita li spaventava tantissimo. Dopo qualche settimana arrivò una camionetta della polizia e parlarono con suo padre, facendo tre proposte così come le avevano fatte a molte altre famiglie ebraiche. Potevano restare chiusi in casa e poi uscire a loro rischio e pericolo. Oppure potevano seguirli per essere accompagnati in un campo di raccolta, fuori da Tripoli, dove sarebbero stati sotto la loro protezione. Oppure ancora decidere di lasciare la Libia: gli avrebbero fornito il passaporto e li avrebbero anche accompagnati all’aeroporto per andare in Italia e poi, quando tutto si sarebbe calmato, sarebbero potuti ritornare. Naturalmente il padre scelse la terza opzione. A distanza di tempo, guardandosi indietro, capirono che come Dio fece uscire gli ebrei dall’Egitto, così aveva fatto in modo che loro uscissero dalla Libia. Fino a quel momento nessuno di loro poteva allontanarsi dal paese, senza lasciare in ostaggio un membro della famiglia. Una volta avuto il passaporto, con una valigia e 20 sterline libiche per uno, salirono sulla camionetta della polizia che li accompagnò all’aeroporto. Il loro arrivo a Roma, almeno per i giovani, fu una grande gioia. Per i genitori che dovettero abbandonare ogni bene fu molto triste ma si rimboccarono le maniche. Purtroppo le persone anziane sradicate dalle loro radici non superarono mai il trauma della cacciata. Pino e la sua famiglia per la prima settimana abitarono in una pensione a porta Maggiore e poi suo padre conoscendo la zona trovò una casa in affitto dove vissero finché non si sistemarono definitivamente. Essendo stato cresciuto in una famiglia osservante tripolina ha continuato a rispettare anche in Italia tutte le tradizioni e le ha tramandate ai suoi figli e nipoti. Pino afferma che le tradizioni si imparano in famiglia e che in famiglia devono essere condivise.
Da questa esperienza di vita a Tripoli, oltre ai momenti piacevoli nella vita di tutti i giorni, ha trasmesso anche le cose tragiche successe durante il Pogrom. In fin dei conti, in tutte le epoche, gli ebrei nel mondo hanno vissuto deportazioni, persecuzioni e cacciate. Era giusto raccontare ogni cosa, sia positiva che negativa. In Libia la vita pubblica era traumatizzante, il modo in cui erano costretti a vivere, sempre con la paura, la mancanza di libertà e tante altre cose molto dure. Essendo molto giovane non aveva piani per il futuro e quindi non è rimasto traumatizzato da questo sradicamento, anzi ne era felicissimo. Di certo non lo erano stati i suoi genitori, che avevano lasciato casa, negozi e tutti i beni per ritrovarsi così, da un giorno all’altro senza niente, con la preoccupazione di avere una famiglia da mantenere. A Tripoli le notizie di guerra arrivavano attraverso la radio: seppero che Israele aveva vinto la guerra lampo.
Pino non ha nessuna nostalgia dei luoghi della sua infanzia a Tripoli, questi posti ormai non esistono più, sono stato distrutti. Non ci tornerebbe più, è sicuro che vivrebbe un’esperienza traumatica, ribadisce che per loro arrivare a Roma è stato l’inizio della felicità e della libertà. Insieme alla sua famiglia tutt’ora coltiva le tradizioni religiose legate alla Libia, ed essendo state tramandate da più di duemila anni è giusto e doveroso che vengano preservate. Fortunatamente la sua famiglia non si è dispersa nel mondo, abitano tutti in Italia dove sono ben integrati. Lui si sente a casa a Roma, anche se nel cuore di ogni ebreo vive sempre Israele.
Per quanto riguarda il lottare per avere giustizia, ed ottenere i risarcimenti dei beni confiscati ingiustamente dal governo libico, sostiene che bisogna battersi per avere quello che è nostro e naturalmente bisogna farlo per vie legali e con voce univoca. Se per gli avvocati ci fosse una sola possibilità sarebbe giusto darsi da fare.
Pino ritiene che bisognerebbe preservare i luoghi sacri, come le due Sinagoghe, i due cimiteri rimasti, le spoglie ammucchiate in un magazzino dei defunti che erano seppelliti nel Cimitero Monumentale Ebraico che Gheddafi fece sgomberare per costruirci sopra un autostrada. Sarebbe importante non lasciare le tombe e le ossa dei cari alla mercé di chiunque possa arrivare e farne scempio. Ma al momento è difficile andare a Tripoli, dove praticamente si stanno ammazzando tra di loro. Sembra altrettanto inutile poter costruire un monumento in memoria dei Pogrom, delle persecuzioni e della Shoah libica. Per chi si dovrebbe costruire un monumento se non ci sono più ebrei in Libia? Per chi ha compiuto quei misfatti nei confronti della comunità ebraica? Da nessuna parte nel mondo, né in Egitto per la schiavitù, né sulle rive del Mar Rosso per il miracolo, si trovano monoliti in memoria del loro passaggio. Secondo Pino il miglior monumento a testimonianza di tutto ciò che hanno subito è la memoria, che si tramanda di padre in figlio. Nonostante l’assenza di un monumento ogni anno tutti gli Ebrei festeggiano l’uscita dall’Egitto, il giorno del Pesach, dalla notte dei tempi, così descritta nella Torah. Il suo proposito per non dimenticare è l’istituzione di una giornata del ricordo per i Pogrom degli ebrei tripolini, della liberazione dopo la Guerra dei 6 giorni degli ebrei dalla Libia.
Essi, afferma, grazie alla loro fede nella Torah e nella tradizione possono essere d’esempio ed insegnare alle altre comunità ebraiche l’importanza dell’unione tra tutti gli ebrei. Con l’unità si possono superare tutti i periodi tragici, anche di disperazione. La loro unione è stata la loro forza. Sostenendosi gli uni con gli altri, hanno ricominciato da capo e tutti si sono dimostrati di essere all’altezza di ricostruire ciò che avevano perso, i loro commerci, i negozi, il benessere e, cosa più importante, la libertà. In Italia si è realizzato diventando rabbino della comunità nella quale è cresciuto. Il messaggio che Pino vorrebbe dare alle future generazioni è che con la libertà puoi diventare tutto ciò che vuoi, e che rispettare ed osservare la Torah attraverso il rispetto delle tradizioni, delle Mizvoth e delle stesse leggi ci fa sentire tutti uguali, come una grande famiglia, e questo è molto importante per un ebreo. Questa unione tra comunità ebraiche è espressione di amore verso tutti i fratelli e la piena espressione del significato di amare il prossimo, che può essere riassunta in una citazione: “Fai agli altri ciò che vuoi che gli altri facciano a te”.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(17 gennaio 2022)