Periscopio – Caifa

Dopo avere trattato della rappresentazione della figura di Giuda nell’Inferno dantesco, e dei suoi possibili significati, c’è da esaminare la sorte destinata dal poeta agli altri tre protagonisti della vicenda della morte di Gesù, ossia il sommo sacerdote Caifa, suo suocero Anna e il prefetto di Giudea, Ponzio Pilato. I primi due, com’è noto, rappresentavano la legittima autorità giudiziaria giudaica che decretò la condanna a morte, il terzo l’autorità di Roma, che, pur non volendosi pronunciare personalmente sulla fondatezza di quella condanna, non ne impedì comunque – come avrebbe potuto fare – l’esecuzione, e prestò anzi i mezzi coercitivi di cui disponeva affinché essa fosse eseguita.
Così come Giuda, anche il comportamento dei tre personaggi, secondo l’ottica dantesca, era inscritto nel superiore disegno di salvezza divino, che imponeva come una necessità il sacrificio del figlio di Dio. Essi appaiono quindi come degli strumenti per la realizzazione del piano voluto da Dio per la salvezza dell’umanità. Ma tale condizione non ne elimina o sminuisce la responsabilità. Quel sacrificio era, sì, necessario, ma restava comunque un crimine incommensurabile.
In ragione della peculiarità della persona vittima di tale delitto, agli artefici dello stesso non poteva essere riservato un supplizio ‘normale’, che li accomunasse a una indistinta pletora di peccatori, ma era necessario che la loro sorte fosse unica, eccezionale. Ciò accade, come abbiamo visto, con Guida, che ha il sinistro ‘privilegio’ di essere maciullato nella bocca centrale di Lucifero, di colore rosso, al centro esatto dell’Inferno, e della Terra. E ciò non può non accadere anche per Caifa e Anna.
Essi sono confinati nella nell’ottavo cerchio, che ospita coloro che abbiano teso frode ai danni di chi non si fidava, e precisamente nella sesta bolgia, quella degli ipocriti. Le anime dannate procedono in una tetra e lenta processione, gravati da pesanti cappe di piombo, dall’esterno dorato: “Elli avean cappe con cappucci bassi/ dinanzi a li occhi…” (Inf. XXIII. 61-62), “Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;/ ma dentro tutte piombo, e gravi tanto…” (64-65). Una chiara forma di contrappasso: come i peccatori sono stati falsi e ingannatori nella vita terrena, così i mantelli plumbei che indossano, apparentemente dorati, ingannano con una falsa immagine di splendore, ma, in realtà, opprimono sotto il loro gravoso peso.
Ma a Caifa e Anna, così come a tutti gli altri componenti di quel Sinedrio, è riservato un supplizio diverso, che li differenzia da tutti gli altri. Essi, responsabili della crocifissione di Gesù, non procedono in processione, ma – anche qui, in un evidente contrappasso – sono “crucifissi in terra con tre pali”, subendo in eterno la stessa sofferenza inflitta all’uomo che vollero condannare, e venendo continuamente calpestati e schiacciati dalle altre anime dannate. Catalano dei Malavolti, il guelfo bolognese a cui Dante si rivolge, gli spiega che coloro che sono così suppliziati sono, appunto, il Sommo Sacerdote Caifa (il quale avrebbe volutamente deciso che un uomo innocente doveva morire, per salvare il popolo dalle conseguenze di una sua assoluzione [“consigliò i Farisei che convenia/ porre un uom per lo popolo a’martiri”: Inf. XXIII. 116-117]), suo suocero Anna e tutti gli altri componenti di quel tribunale (massimo simbolo, agli occhi di Dante – ma è un’idea che nasce con i Vangeli – dell’umana nequizia).
Le parole di Catalano, fatte evidentemente proprie dal fiorentino, riprendono quelle del Vangelo di Giovanni (XI. 50), secondo cui la condanna di Gesù sarebbe stata coscientemente presa per salvaguardare il popolo giudaico, e non sulla base dell’idea di una colpevolezza dell’imputato. Caifa, Anna e gli altri giudici, perciò, sarebbero stati degli empi ipocriti, e, in ragione della particolare natura della vittima del loro comportamento, appaiono come i peggiori ipocriti che l’umanità abbia mai generato, così come Giuda è il più deprecabile dei traditori.
Così come per Giuda, anche riguardo alla sorte destinata da Dante ai membri del Sinedrio occorre chiedersi se, e in che misura, tale narrazione sia improntata a uno spirito antisemita. E, così come per Giuda, anche tale domanda va scissa in due interrogazioni distinte.
La prima consiste nel chiedersi se il poeta abbia voluto esprimere, con i suoi versi, una generale dannazione per l’insieme del popolo ebraico, integralmente colpevole dell’orrendo crimine del deicidio. E la risposta, in questo caso, di nuovo, deve essere negativa. Niente, nella Commedia, lascia dedurre qualcosa del genere. Quegli uomini sono colpiti per quella che, agli occhi di Dante, nel quadro della sua geometrica, inesorabile e terribile esigenza punitiva, appariva una responsabilità individuale, e solo questa.
Ma c’è anche un’altra domanda che ci si deve porre, ed è quella se, in che misura, con quale eventuale consapevolezza, questa tenebrosa, cupa e crudele raffigurazione abbia dato alimento, nei secoli successivi, alla malapianta dell’antisemitismo. E la risposta, in questo caso, non può non essere di segno radicalmente opposto, per le ragioni che ci riserviamo di illustrare mercoledì prossimo.

Francesco Lucrezi