Machshevet Israel – Ziqnà

Parliamo di ziqnà ovvero di vecchiezza/anzianità, da un punto di vista ebraico. Ai filosofi, specie quando invecchiano, piace soffermarsi su questo tema, che costringe a riflettere sul senso del tempo (che passa), sul valore dell’esperienza accumulata (se elaborata), sulla saggezza di cui gli ‘uomini con la barba’ sarebbero – dovrebbero essere – simbolo. Ma “quale saggezza?” si chiede ironicamente Norberto Bobbio, il cui De senectute è un classico contemporaneo sul tema. Si sa, anche la demenza è un esito frequente del cumulo degli anni e non sono pochi i vecchi che, invece di diventare più saggi, semplicemente regrediscono a stadi infantili (è l’etimologia di ‘rimbambire’). La tradizione ebraica, sempre ispirata a realismo storico e antropologico, non idealizza quest’età della vita: come non esiste un mito ebraico della ‘giovinezza’, così non ne esiste uno sulla ‘vecchiezza’.
Come in tutto il mondo antico, anche per l’ebraismo la soglia che fa entrare nella terza età, che non è espressione antica, sono i sessant’anni. Lo si legge ad esempio nei Pirqè Avot: “Yehudà ben-Temà diceva: (…) sessanta è l’età della vecchiaia [ziqnà]; settanta della canizie [sevà]; ottanta della resistenza [ghevurà]; novanta del declino [shuach]; a cent’anni è come essere già morti [keilu met]” (V,27). Ne abbiamo eco anche in Schopenhauer, là dove scrive: “Con la vecchiaia le passioni e i desideri si spengono uno ad uno… il vegliardo cammina traballando ed è solo più un’ombra, lo spettro di ciò che era un tempo. Che cosa resta in lui che la morte possa ancora distruggere?” (cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione). Del solo Mosè la Torà dice che, a centovent’anni, “il suo occhio non si era velato né la sua freschezza era venuta meno” (Devarim/Dt 34,7). Dunque la vecchiaia è solo un’età, una fase della vita, tutto dipende da come ci si arriva e per cosa ci si arriva: dopo i dodici/tredici anni, l’età delle mitzwot e dello studio termina solo con la fine dell’esistenza; quanto all’essere saggi, dipende.
Lo insegna un famoso midrash, che invero è un mashal, una parabola. Nel Talmud è riferito a Chonì ha-meagghèl (Bavli, Ta’anit 23a), ma ne circola un’altra versione dove si interloquisce con l’imperatore Adriano, affetto dal mito dell’eterna giovinezza e amante di efebi. Un vecchio ebreo, dice la storia, piantava un carrubo e Chonì (o l’imperatore) gli chiese: quanti anni ci vogliono prima che questo albero dia frutti? Gli rispose: settant’anni! Replica: Ma pensi forse di vivere per altri settant’anni? Gli disse il vecchio: “Ho trovato il mondo pieno di carrubi. Come i miei padri hanno piantato per me, così anch’io ho piantato per i miei figli”. La morale è evidente. Pochi sanno che la stessa storia circolava, già secoli prima di finire nel Talmud, nella letteratura greco-romana antica. La troviamo nel commediografo latino Cecilio Stazio (III-II sec a.e.v.): “Semina alberi, che gioveranno alla generazione ventura”, citato da Cicerone nel suo Cato Maior de senectute: “Un contadino, sebbene vecchio, non esita a rispondere a uno che gli domanda per chi semini: ‘Per gli dèi immortali, i quali vollero non solo che io ricevessi queste cose dai miei avi ma anche le trasmettessi ai miei discendenti” (VII,24-25).
Saggia o meno, la vecchiaia va rispettata e onorata come si rispetta e si dà kavod ai propri genitori (che siano stati buoni o meno; essi non vanno ‘imitati’ se non sono stati dei modelli, ma vanno comunque onorati). Per questo quando pensavano a un sovvertimento politico-sociale o a un capovolgimento dei valori etico-religiosi fondanti una buona società, alcuni maestri, in rare visioni di sapore apocalittico (“in prossimità della venuta del messia”), immaginavano un’epoca nella quale “i giovani insolentiranno i vecchi e i vecchi si alzeranno in piedi al cospetto dei giovani, la figlia insorgerà contro sua madre, la nuora contro sua suocera… una generazione il cui muso sarà simile a quello di un cane” (cfr. Mishnà, Sotà IX,15; Bavli, Sanhedrin 97a). Anche qui, il mondo greco antico aveva usato lo stesso immaginario, come si legge nell’VIII libro della Repubblica di Platone là dove è descritta l’ubriacatura del popolo per una libertà, anzi un arbitrio senza più ethos e regole, preludio alla tirannia: “Il padre, impaurito, finisce per trattare il figlio come suo pari e non è più rispettato; il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui; i giovani pretendono la stessa considerazione degli anziani e questi, per non sembrare troppo severi, dànno ragione ai giovani”. Secondo Maimonide (Hilkhot Talmud Torà, VI), il saggio va riconosciuto dalla sua sapienza e dalle sue qualità morali, non dal mero computo dei suoi anni, e solo chi abbia acquisito sapienza merita davvero il titolo di zaqen, anziano. Il gesto con cui si onora l’anziano – anche se non è un chakham (ma a fortiori se lo è) – è quello, simbolico, di ‘alzarsi dinanzi a lui’, come è detto: “Alzati e porta rispetto” (Wayqrà/Lv 19,32). Ci si alzi, dice il Rambam, persino dinanzi a un vecchio non ebreo. Tuttavia anche i saggi, gli anziani e i rav hanno i loro doveri e devono dare l’esempio, oggi si dice: siano dei veri role model; se sono così, “è peccato umiliare i saggi e gli anziani” e “chiunque mortifica i rabbini saggi non ha parte al mondo futuro”.

Massimo Giuliani, università di Trento