Rosh Hashanah Lailanot
Rosh Hashanah Lailanot, il capodanno degli alberi (appena celebrato), è chiamato anche Tu bishvat (15 di Shevat), dando alla scrittura dei numeri (in ebraico non ci sono caratteri speciali per scrivere le cifre, si utilizzano le lettere dell’alfabeto) una lettura letterale anziché numerica. Che cos’è Tu bishvat? Per capirlo occorre fare un passo indietro. Nella Torah c’è tutta una serie di prescrizioni di consegna di “decime” al Santuario, divieto di coltivazione al settimo anno e così via. Ma come si contano gli “anni”: a partire dal 15 del mese di Shevat. Trascuriamo le divergenze tra le varie scuole rabbiniche: l’inizio dell’anno agrario è fissato a partire dal mese di Shevat (1° o 15 poco importa) ( per relazione di idee, nell’ Italia civile di oggi l’annata agraria decorre dall’11 novembre). Con l’esilio, dopo la distruzione romana del Santuario, tutte queste norme legate alla terra parvero perdere un senso, per mancanza di quel legame che esisteva tra il Popolo e la Terra Promessa dopo il ritorno dagli esilii di Egitto e di Babilonia. Quindi tanti comandamenti (mitzwoth) sarebbero divenuti “inutili”? No, poiché è inaccettabile e inconcepibile che la parola del Signore sia stata pronunciata “invano”.
Nel corso dei secoli dell’esilio però l’importanza della festa si affievolì: Tu biShvath aveva (ed ha) il significato di separare due anni, consentendo di calcolare correttamente gli obblighi (annuali appunto) di sacrifici e conferimento al Santuario di prodotti della Terra. Ma durante l’esilio non era possibile (né aveva senso) partire da Varsavia piuttosto che dal Texas con due o tre agnelli da sacrificare sul piazzale dove era esistito il Santuario, (purtroppo distrutto dal 70 dell’E. V.). Che fare dunque? Per molti secoli i comandamenti di questa natura rimasero lettera morta: non soppressi, ma nemmeno osservati.
A metà del ‘500, però, si deve a Rav Yitzhak Luria la valorizzazione della ricorrenza di Tu bishvath. Rabbi Luria (ri)attivò a Safed, nel nord di Israele, allora sotto dominio ottomano, una scuola con un indirizzo totalmente nuovo per quel tempo: mistico e di studio della kabbalah. Egli e i suoi discepoli definirono anche la forma delle celebrazioni di Tu bishvat sulla falsariga della celebrazione di Pesach e in particolare del suo Seder. La celebrazione, cioè consiste nel mangiare (recitando le appropriate benedizioni di ringraziamento) cibi (e più particolarmente frutti della Terra Promessa) specialmente significativi. In particolare si usa mangiare, sulla traccia del racconto della Torah: frumento, orzo, uva, fichi, melograni, olive, datteri ed anche probabilmente albicocche, mandorle, pistacchi, noci, agrumi, ecc. Nella tradizione viene consigliato il consumo o l’assaggio, quando possibile, di almeno 26 frutti, numero corrispondente alla lettura del nome del Signore considerando le lettere che lo compongono come numeri. Il consumo dei frutti viene intercalato dalla lettura di brani della Torah e di commenti rabbinici. Si beve, inoltre, vino rosso e bianco.
A questo punto occorre osservare che, in pratica, per mantenere viva la festa molto è stato cambiato: non è più quella data limite fiscale che oggi non avrebbe più senso, ma al tempo stesso si ricorda il suo significato originario, ma è stato aggiunto anche il ricordo della Terra Promessa e della capacità di questo territorio di offrire una varietà di prodotti ai suoi abitanti, nostri progenitori. Questo, in un periodo in cui il ritorno a Sion non era concepibile, ma continuava a rappresentare un’aspirazione che i Maestri seppero tener viva. Nel ‘600, ai tempi di Rav Luria, doveva sembrare una romantica stranezza, ma 300 anni dopo si avviò a divenire realtà.
E qui si impone una considerazione: se Israele è vivo ancor oggi, nei suoi aspetti più diversi e variegati, è senz’altro merito di questi Maestri che, chi in un modo chi nell’altro, hanno saputo mantenere e, entro limiti molto ristretti, ma necessari, modificare i comandamenti delle mitzwot antiche, adattandole ai tempi, ma tramandandone l’osservanza e sopratutto i significati: quello formale (forse più antico) e quello più profondo senz’altro più adatto alle mutazioni dei tempi e dei costumi, mantenendone però il valore originario, sia nel senso della memoria sia nel senso di attualità morale.
C’è da aggiungere che la celebrazione di una festa così strettamente agricola per molti secoli deve essere apparsa strana agli ebrei ormai inurbati nelle più diverse realtà mondiali, ma venne ugualmente tramandata per 20 secoli, fino a che gli eventi e la storia del Popolo Ebraico ne resero nuovamente attuale il significato.
Roberto Jona, agronomo