La commemorazione alla Fenice
“Shoah, la Memoria non è un rito”

Nel nome di Virginia Gattegno, sopravvissuta ventenne alla Shoah, la cerimonia cittadina per il Giorno della Memoria che si è svolta stamane a Venezia al Teatro La Fenice. Ad intervenire la presidente del Consiglio comunale Ermelinda Damiano, il presidente della Comunità ebraica Dario Calimani e il direttore generale del Teatro Andrea Erri.
“Testimoniare pubblicamente, ogni anno, la catastrofe della Shoah porta con sé, per noi, oltre al riacutizzarsi del dolore, anche una certa dose di imbarazzo. Imbarazzo, perché si può avere la sensazione di star partecipando a un rito che, con l’aumentare della distanza dagli eventi, si fatica sempre più a riempire di significato”, le parole del presidente Calimani. Nel suo intervento vari riferimenti a un presente che sembra offrire più di un motivo di angoscia. “Qualcuno pensa che di Shoah si parli troppo; altri lamentano che si parli di Shoah ma non di altri crimini, e che gli ebrei pretendano l’esclusiva della memoria, dopo (diciamo noi) aver goduto del privilegio dello sterminio. La Shoah è ingombrante. La coscienza della civiltà occidentale – il suo atto d’accusa – non riesce ancora a confrontarsi con le proprie responsabilità”.

O la Memoria insegna, o le parole non valgono

Testimoniare pubblicamente, ogni anno, la catastrofe della Shoah porta con sé, per noi, oltre al riacutizzarsi del dolore, anche una certa dose di imbarazzo.
Imbarazzo, perché si può avere la sensazione di star partecipando a un rito che, con l’aumentare della distanza dagli eventi, si fatica sempre più a riempire di significato. Si teme di partecipare a un rito destinato a non lasciare segno e a non fare storia. Si può avere la sensazione di star rispolverando la Memoria per un breve attimo, per poi rimetterla nel cassetto, per un altro lungo anno di indifferenza.
Per chi ha avuto in casa la tragedia della Shoah, l’eredità della Memoria è cosa di tutti i giorni. La memoria della Shoah è diventata parte irrinunciabile del nostro animo e della nostra coscienza.
Ma parlare di Shoah crea disagio per più motivi. Qualcuno pensa che di Shoah si parli troppo; altri lamentano che si parli di Shoah ma non di altri crimini, e che gli ebrei pretendano l’esclusiva della memoria, dopo – diciamo noi – aver goduto del privilegio dello sterminio. La Shoah è ingombrante. La coscienza della civiltà occidentale non riesce ancora a confrontarsi con le proprie responsabilità.
Per questo, quando si parla di Shoah le si accostano sempre più spesso altre tragedie, dai crimini di Stalin alle foibe, dalla guerra civile in Siria alle barche dei migranti che affondano nel Mediterraneo. Per questo, in questi stessi giorni, in corrispondenza con il Giorno della Memoria, si è organizzato a Ferrara un Festival delle Memorie, al plurale, come se parlare di Shoah soltanto fosse cosa vergognosa e riprovevole, riparabile solo a patto di parlare nella stessa giornata del genocidio armeno, della persecuzione dei curdi, dello sterminio dei Tutsi e via dicendo. Un ricordo della Shoah ben spalmato, confuso fra i tanti ricordi dei tanti terribili massacri del nostro tempo. L’orrore della Shoah messo fuori fuoco e attenuato per mostrare che orrore e sterminio sono fenomeni naturali e inevitabili della nostra epoca, in ogni parte del mondo. Tutto equiparato e tutto appiattito al comune, generico denominatore della morte. L’orrore inspiegabile della Shoah si confonde con la politica delle dilanianti guerre civili, con le sanguinose contese territoriali, con la fuga disperata dei migranti dalla fame alla civiltà. E non si accetta, così, che ogni tragedia dell’umanità sia tragedia a sé, e meriti il suo momento di attenzione, di riflessione, di commemorazione. Per permettere alla gente di meditare sullo specifico, anziché globalizzare anche la tragedia e il dolore.
È inevitabile, allora, che si giunga al limite di banalizzare la Shoah con analogie improprie, fino, recentemente, allo scandaloso confronto con il Green Pass obbligatorio. E nessuno se ne scandalizza troppo, come se si trattasse di una semplice, innocua battuta. Come se la Shoah fosse stata solo una catastrofe per il popolo ebraico, oggi ormai risibile, e non anche uno scempio per lo spirito umanitario della civiltà occidentale.
La Shoah viene così misconosciuta e ridicolizzata, come quando si cerca di compensare il suo orrore con la pur criticabile realtà della situazione israelo-palestinese, concentrando tutta l’attenzione sulle sole colpe di Israele e tralasciando non solo le responsabilità della strategia terroristica che le si oppone, ma anche le molte analoghe o ben peggiori situazioni in giro per il mondo.
Quando si fanno mozioni di condanna di Israele – e se ne fanno – ma non si pensa mai di farne su decine di altri paesi in cui vengono calpestati i diritti civili e persino quelli umani, allora qualche dubbio sulla buona fede dei proponenti lo si può a buon diritto coltivare. L’esistenza stessa di Israele è vista in determinati ambienti politici come una colpa degli ebrei. La Shoah considerata un pretesto per fondare lo Stato di Israele. La Shoah non è bastata a metter fine al pregiudizio antisemita. Anzi, lo ha, se possibile, nutrito e rafforzato.
La Shoah provoca disagio, al punto che si evita di trattarla anche spostando il discorso su argomenti più leggeri di vaga cultura ebraica, perché la vita è bella – si dice – e la vita continua. Ma per sei milioni di persone la vita si è fermata lì, nei campi di sterminio. Varrebbe allora, piuttosto, la pena di dedicare più attenzione e rendere onore a chi ci ha liberato dalla tirannia del fascismo e a quella minoranza di giusti che gli ebrei hanno cercato di aiutarli e di salvarli.
Tanto è il disagio provocato dalla Shoah che ci si rifiuta di riconoscerne la spaventosa unicità. Una unicità che, anche qui, non è affatto privilegio. Non esiste, infatti, nella storia dell’umanità un altro caso di progetto di eliminazione sistematica di un intero popolo, un progetto scientificamente pianificato e puntigliosamente eseguito, rastrellando con impegno scrupoloso da ogni angolo d’Europa individui e famiglie per convogliarli tutti verso i campi di sterminio nazisti con cura predisposti allo scopo. Una grande retata a livello continentale realizzata per il fine specifico di far sparire tutti gli ebrei dalla faccia della terra. Non per una contesa territoriale, non per un conflitto politico o ideologico, ma per realizzare la purezza della razza ariana.
A trattare di Shoah si prova imbarazzo perché, per quanto se ne parli, c’è sempre chi dubita, chi non crede, chi sminuisce, chi pensa che dopo tanti anni sarebbe venuto il tempo di dimenticare e di seppellire anche il ricordo. Si è imbarazzati a parlare di Shoah, perché bisognerebbe ripetere, per l’ennesima volta, della campagna diffamatoria ai danni degli ebrei, della loro emarginazione, della loro cacciata dal lavoro e dalle scuole, dei rastrellamenti casa per casa, dei carri piombati, delle camere a gas, e dei forni crematori. E poi i numeri spaventosi: sei milioni di morti, sterminati. Più di metà degli ebrei d’Europa massacrati senza un perché. Fra questi, un milione e mezzo di bambini. Ma i numeri sono freddi e disumanizzano la devastazione. A contrastare l’anonimato della loro morte solo lo smarrimento delle pietre d’inciampo che si stanno piantando in giro per l’Europa.
Allora dovrei dire delle morti nella mia famiglia, e mostrare la foto di mia cugina Pia, deportata a ventun anni assieme al figlioletto Leo di due mesi, ammassati dai fascisti in un carro bestiame piombato e spediti ad Auschwitz. Gassati, bruciati e fatti passare per il camino. E dovrei raccontare la storia dell’amico, deportato ad Auschwitz ragazzino con la famiglia e ritornato da solo; dovrei raccontare una storia che non so, perché quell’amico, con cui ho parlato di tutto, non è mai riuscito a trovare le parole per raccontarmela.
Della storia conosciamo soltanto frammenti, e frammenti spesso eufemizzati, frammenti cui, nell’enormità della tragedia e dell’orrore, non si è mai data troppa importanza. Mi raccontava pochi giorni fa, in questa sala, Fortunato Ortombina, Sovrintendente di questo teatro, come i fascisti veneziani approfittassero degli spettacoli della Fenice, quando parte della popolazione era distratta, per mettere in atto i rastrellamenti degli ebrei, casa per casa.
Ripercorsa la storia, bisognerebbe ripercorrere poi, nei dettagli, il pregiudizio e l’odio antisemita che continuano ad avvelenare, ancora ai nostri giorni, i sentimenti della società, nelle manifestazioni politiche, nelle curve degli stadi, nei social, malgrado qualche sforzo delle istituzioni, malgrado le molte azioni nelle scuole. Episodi e manifestazioni di antisemitismo troppo spesso trascurati, sottaciuti, minimizzati dalla politica e dalla società. Ma Liliana Segre è sotto scorta, Edith Bruck è sotto scorta, e sono sotto scorta, ormai da anni, molti rappresentanti delle nostre istituzioni, le nostre sinagoghe e le nostre sedi istituzionali in tutta Italia. Ovviamente alle Forze dell’Ordine va il nostro più vivo ringraziamento: è per il loro ventennale impegno che possiamo godere di una relativa sicurezza. Ma vivere sotto scorta non fa affatto piacere, e non trasmette spirito di serenità. È un terribile segnale per la nostra società e per la nostra civiltà.
È sconvolgente sentire affermare, da chi ci rappresenta da uno scranno del nostro Parlamento o di qualche consiglio comunale o regionale, che gli ebrei sono una lobby e che solo grazie alla loro potenza si continua a parlare di Shoah; è sconvolgente dover protestare a scadenza regolare contro chi afferma che la finanza ebraica domina il mondo e cospira ai suoi danni. La tesi del complotto demo-pluto-giudaico-massonico ritornata in auge, riprendendo la famigerata propaganda nazifascista. C’è una linea politica che ama rispolverare con regolarità i falsi Protocolli dei Savi Anziani di Sion e la loro velenosa propaganda antisemita.
Se tutto ciò non bastasse, la retorica antisemita arriva a colpevolizzare l’ebreo, come se chi ha subito l’orrore dovesse giustificarsi e chiedere scusa per averlo subito. Si rimprovera agli ebrei di tenere vivo caparbiamente il ricordo, facendo così soffrire chi se n’è reso colpevole o i suoi eredi e seguaci. È il capovolgimento di ogni criterio logico e di responsabilità morale.
A questo clima di varia contestazione della Shoah e della sua memoria, contribuisce il riaffacciarsi di un’infausta nostalgia di tempi e modi che si speravano morti e sepolti. La nostra società non ha affatto digerito e metabolizzato i danni e i crimini del suo passato fascista, semplicemente perché non ha affrontato colpe e responsabilità del ventennio e, in particolare, della guerra e delle persecuzioni antisemite. Si è preferito un silenzio ipocrita, ai fini di un malinteso spirito di conciliazione nel paese. È questo colpevole silenzio, questo abissale vuoto di coscienza, che permette oggi di intitolare strade e piazze e scoprire monumenti in onore e memoria di gerarchi e criminali fascisti. È questo vuoto di coscienza che consente a certa politica di minimizzare il pericolo fascista e di abbassarsi a pericolosi e intollerabili compromessi. È questo vuoto di coscienza che ha fatto mancare una condanna severa, definitiva e perdurante nel presente del fascismo – regime, idee, seguaci e sostenitori.
È grazie a questi silenzi e a questo vuoto di coscienza che oggi assistiamo a connivenze della politica con movimenti di piazza razzisti e antisemiti, è grazie a questo irrisolto nodo della coscienza nazionale che assistiamo vergognosamente all’assalto a un sindacato, e a un funerale con al centro una bara ricoperta dalla bandiera nazista, con svastica in bella evidenza e militanti tutt’attorno, braccio teso nel saluto romano. Segni assai poco equivoci di una ideologia malata che di guasti al paese e alla sua coscienza ne ha provocati già troppi.
Di fronte ai sentimenti di odio che continuano a serpeggiare fra le pieghe della nostra società, ogni giorno più protervi e violenti, è compito delle istituzioni non sottovalutare il pericolo, porvi rimedio e fare proposte educative che impediscano il ripetersi, anche soltanto nelle sue premesse, di una storia di morte.
È difficile educare al rispetto delle differenze, difficile educare all’idea che il rispetto dell’altro passa per il rispetto della diversità. Di fronte a una politica che si basa sull’individuazione del nemico da sopraffare ed emarginare, è difficile educare all’idea che la diversità è il principio cardine che dovrebbe informare la società civile, smentendo così la pretesa di omologazione e di adeguamento culturale e sociale. Difficile educare all’idea di una società che si fondi sulla libertà di essere nella diversità.
Non ci possiamo illudere di assolvere il dovere della memoria con il rito di un giorno. La memoria è durata reale continua nella coscienza, o non è memoria. La memoria non è fatta di frammenti che si recuperano a volontà al momento del bisogno e poi si ripongono fino all’occorrenza successiva.
Se la memoria è viva produce coscienza, pensiero e azione. Ma, soprattutto, se la memoria è viva è innanzitutto presenza.
Per lo sterminio di un popolo nessuno può chiedere scusa a nessuno, e servono a poco purtroppo, per quanto gradite, l’empatia e la solidarietà. Servirebbe anche soltanto la comprensione vera di quanto si possano pagare il pregiudizio e l’odio dell’altro.
Una recente indagine riferisce che il 38% degli ebrei europei pensano sia opportuno per loro lasciare l’Europa. L’antisemitismo è ancora qui fra noi, inestirpabile. E spesso si tratta di forme di antisemitismo subdolo, ma non poco diffuso. In questi giorni, qui a Venezia, si imbratta un manifesto della Memoria e vi si scrive sopra: ‘Per accedere serve il Super Green Pass: Giallo!’, con ovvio riferimento alla stella gialla dei tempi di Auschwitz. Non serve ricordare e commemorare la Shoah, se non si guarda in faccia l’antisemitismo di oggi, a casa nostra.
Se alla memoria della Shoah vogliamo riconoscere un senso è mostrando sensibilità di fronte all’odio e alla discriminazione, al pregiudizio e all’emarginazione che possano preludere a fenomeni di devastazione e disumanizzazione dello spirito umano, come si è dovuto assistere, impassibili, durante la Shoah. E poco conta che a essere discriminati, emarginati, perseguitati o respinti siano gli ebrei o altri.
O la memoria della Shoah insegna o non valgono le parole e i riti dei nostri giorni.
Alla società il dovere di riflettere e di agire, educandosi ed educando.

Dario Calimani, presidente Comunità ebraica di Venezia

(23 gennaio 2022)