Ricordarsi di ricordare
A oltre vent’anni dall’istituzione del Giorno della Memoria, incorporato nella lettera della legge 211 del 2000, è senz’altro possibile fare un bilancio sufficientemente articolato della sua ricaduta sulla società italiana. Alle molti voci fin da subito a esso favorevoli si sono infatti sommate quelle che, con il trascorrere del tempo, hanno invece identificato limiti e strozzature di una prassi che somma in sé commemorazione e riflessione, comunicazione di superficie e analisi in profondità, emozioni di circostanza e ricerche di lungo periodo. Un orizzonte in chiaroscuro, quindi, connotato non solo dalla natura stessa del dispositivo legislativo – inevitabilmente connotato dal suo essere il prodotto di una mediazione politica e parlamentare tradottasi poi in un norma di diritto – ma anche da una molteplicità di fattori ed elementi, imprevedibili nella loro traiettoria di lungo periodo così come soprattutto mutevoli. Tra di essi, la ricezione da parte della società (in sé non un organismo amorfo ma un complesso aggregato di persone e idee, di organismi intermedi e di opinioni in costante mutamento); la crisi dell’antifascismo come prodotto delle trasformazioni del patto costituzionale; la oramai lunga età del populismo, che ha informato di sé non solo la politica ma anche la società civile, candidatosi ad esserne l’esclusivo rappresentante; l’indirizzo di fondo dell’Unione europea, volto a consolidare l’acquisizione, in tutti i paesi che ne sono parte, di leggi e norme di natura memorialistica improntate all’«antitotalitarismo», ossia non solo al rifiuto delle dittature e dei regimi autoritari ma anche, in una logica di ben più ampio respiro,di qualsivoglia indirizzo politico (ed istituzionale) che non trovi i suoi fondamenti nel liberalismo.
Si debbono pertanto tenere in considerazioni molti aspetti dal momento che si voglia fare un’analisi critica, ancorché non polemicamente precostituita, dell’istituto memorialistico nel suo insieme. Due fattori, a tale riguardo, vanno poi privilegiati: il riscontro che la legge 211 non solo recepisce una crescente sollecitazione europea ma suggerisce di inserire le vicende italiane, e il modo in cui vengono ricordate, dentro un criterio di ordine continentale. Se i fascismi furono un fenomeno che interessò l’intera Europa, allora le tragedie che causarono non possono essere disgiunte da questo orizzonte comune. Fermo restando che l’«Europa» alla quale ci si rivolge oggi, fino alla fine degli anni Ottanta era non solo divisa in due da opposti sistemi politici, sociali e culturali, ma si era anche dotata di memorie del passato nazi-fascista per nulla omogenee. Non è un caso, infatti, se nei paesi dell’Est la rivendicazione “antitotalitaria” si soffermi molto di più sui trascorsi dei regimi a «democrazia popolare» che non sul tragico lascito dell’occupazione nazista. La qual cosa, nei suoi diversi aspetti, implica il rimando anche ad irrisolte conflittualità intercorse, da ben prima dell’arrivo degli occupanti, con le locali comunità ebraiche, solo in parte allora intese come elementi costitutivi della più ampia cittadinanza nazionale. Di ciò, ovvero di quei sedimenti, qualcosa si riflette anche nel presente, soprattutto quando il richiamo al passato è volto in senso profondamente anticomunista e neonazionalista, non associando a ciò un pari e analogo sentire antifascista.
Un secondo elemento è quello per cui l’intera articolazione data alla memorialistica istituzionalizzata (quella, per l’appunto, che si basa su una miscela di raccomandazioni a ricordare, in un corpo di attività cerimoniali, in un sistema di comunicazioni pubbliche, in un insieme di attività di pedagogia civile ) è strettamente debitrice di una visione delle società che in qualche modo si sofferma soprattutto sullo statuto e la condizione della «vittima», in qualche modo intesa come centrale nella determinazione della coscienza di cittadino, di contro ad una visione che riesca anche a tenere a sé ulteriori aspetti dell’identità collettiva. Per essere più espliciti, il Novecento è stato anche un secolo di genocidi, guerre civili e lotte fratricide. Ma se si parla di esso, non si può omettere che per una parte dell’umanità ha costituito il secolo dei diritti conquistati (e non regalati). Creazione (di giustizia) e distruzione (di libertà) sono due corni di uno stesso problema, due capi estremi – ed in totale contrapposizione – dello stesso filo, quello della storia. Non si può capire l’uno se non si analizza l’altro, e viceversa. Non si è cittadini se ci si pensa solo come figli di un trauma destinato a rimanere in elaborabile. D’altro canto, non si figli della propria epoca se non si ha cognizione delle discontinuità di cui essa è il prodotto, raccogliendo pertanto anche il lascito delle tragedie collettive.
Se veniamo al caso italiano, un importante elemento da registrare è la diffusione nelle scuole di una lettura critica dei temi legati alla violenza istituzionale praticata dal nazismo e dai fascismi europei. Un obiettivo fondamentale, che è stato per certi aspetti raggiunto, sia pure con molti limiti. Se alcuni decenni fa lo sterminio razzista per eccellenza del Novecento, la Shoah, era un oggetto storico e civile sconosciuto ai più – al netto degli studiosi e dei testimoni in quanto tali – oggi si registra invece una maggiore comprensione degli eventi di quel passato e del loro lascito etico, civile e politico nelle società presenti. Non di meno, un rischio che si corre, fatta la tara delle intenzioni formulate dalla pedagogia pubblica, è quello per cui ogni fenomeno storico che sia fatto oggetto di ricorrenze istituzionali possa cristallizzarsi in una serie di ritualità che, nel tempo, perdono il loro spessore verace ed autentico. In buona sostanza, non funziona ciò che è sottoposto ad inflazione (eccesso di offerta, ripiegata su schematismi ripetitivi, quasi che ricordare fosse un esercizio automatico e privo di asperità), a banalizzazione (de-contestualizzazione e perdita del senso di storicità di un evento collettivo, ridotto quasi ad una sorta di rappresentazione scenografica, in accordo più con il clamore del momento che non con la riflessione critica), a sacralizzazione (la sua visione come un assoluto, anch’esso decontestualizzato e privo di nessi con i processi storici) e negazione (la rimozione radicale del fatto, stravolto e trasformato in una sorta di finzione menzognera).
Così come non può essere bene accetta la condotta per la quale la memoria del passato si riveli scarsamente o per nulla funzionale ad un uso universalistico, riversandosi semmai nella sua piegatura particolarista, quella per cui il gruppo che è stato vittimizzato avanza istante e richieste che sono legate esclusivamente alla propria auto-valorizzazione, non solo in chiave risarcitoria ma a tratti quasi ricattatoria. A tale riguardo, vale forse la pena ricordare agli apologeti acritici delle identità particolariste, ben presenti all’interno del dibattito sul cosiddetto «politicamente corretto», che l’enfatizzazione non temperata e ragionata di tali aspetti non solo non ci restituisce il senso di una cittadinanza comune (laddove invece si condividono i medesimi diritti partendo da storie e soggettività che rimangono diverse) ma rischia addirittura di contribuire a fare franare l’intera impalcatura costituzionalistica, laddove inneschi un processo di segmentazione delle società, sempre più spesso identificate con gruppi che non mediano tra di loro ma avanzano esclusivamente richieste di autoaffermazione in virtù del fatto di avere subito percorsi di discriminazione e vittimizzazione. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un tema molto delicato, pieno di potenziali equivoci. Va articolato con la necessaria attenzione ad una molteplicità di implicazioni, evitando generalizzazioni e semplificazioni. Rimane il fatto che la lotta strategica per l’affermazione dei diritti civili (i diritti alla differenza) non può essere in alcuni modo disgiunta da quella per i diritti sociali (i diritti all’eguaglianza), pena altrimenti lo sfaldamento di qualsiasi orizzonte condiviso. […]
L’insieme di questi atteggiamenti, altrimenti piuttosto diffusi, è quindi una vera e propria corruzione dell’istanza stessa che dovrebbe invece innervarsi dentro le ragioni del Giorno della Memoria, quella non solo del ricordo ma soprattutto del suo buon uso politico, nel senso di promuovere con coscienza e consapevolezza la coesione sociale attraverso la giustizia e le libertà collettive. In altre parole, se la memoria non è un atto politico ma solo un prodotto di un aggiustamento di circostanza – fenomeno tanto più accentuato laddove si va blaterando di «memorie condivise», sulla base di un paradigma antitotalitario che rende, nella notte della comprensione, tutto indistinto e, quindi, immediatamente intercambiabile – allora il suo valore etico è pressoché nullo. Così come Auschwitz non può restituirci tutta la complessità del secolo trascorso, del pari Auschwitz non può essere inteso come la cornice dentro la quale collocare qualsiasi discorso sul passato. Ma, al medesimo tempo, nulla di ciò che è stato ci risulta intellegibile se non ci si confronta anche con i lager. Non è solo un problema di misure e quantità, beninteso. Semmai rimanda alla capacità di svolgere un lavoro sulla dialettica tra libertà e schiavitù, diritti ed arbitrio nell’età dell’ipermodernità.
Il Giorno della Memoria, quindi, serve ad un esercizio di cittadinanza attiva se ci aiuta a comprendere, attraverso l’analisi delle radicalizzazione cumulativa di pratiche istituzionali legate al razzismo di Stato – attraverso i loro esiti estremi, un genocidio industriale – l’intero processo politico e sociale che ha attraversato il Novecento europeo. È come una sorta di cartina di tornasole, sulla base della quale capire, attraverso la specificità di un evento catastrofico, molti altri aspetti della vita. Si tratta, nel qual caso, di comparare, e non certo di equiparare, ciò che è stato, nelle sue diverse manifestazione, anche con ciò che è nel presente. Per cogliere cosa resta di trascorsi così foschi, tali da potersi mimetizzare, sia pure come particelle elementari, nella complessa intelaiatura del tempo che stiamo vivendo. Nulla si ripete uguale a se stesso ma sedimenti di ciò che fu riemergono anche nell’età dell’inquietudine che stiamo attraversando.
[Estratto da un articolo pubblicato sulla rivista Spazio Pubblico, n°1/2022]
Claudio Vercelli
(23 gennaio 2022)