Storie di Libia – Walter Arbib

Walter Arbib, ebreo di Libia. È conosciuto da molti per la sua filantropia. Il ricordo della sofferenza subita a causa del pogrom dagli ebrei a Tripoli gli ha messo nel cuore il desiderio di aiutare le persone nei momenti di necessità causate da ingiustizie, guerre, cataclismi, prescindendo dall’appartenenza religiosa o etnica. Grazie ai suoi aiuti umanitari, fatti con il cuore e in nome di Israele, ha ricevuto molte medaglie e riconoscimenti, ad esempio dalla regina Elisabetta d’Inghilterra e dall’attrice Mia Farrow. È inoltre Ambasciatore di Pace per il governo italiano ed è stato insignito del titolo di Commendatore della Repubblica.
Non avendo altra alternativa, dato che non c’erano aerei disponibili durante lo tsunami di alcuni anni fa, decise di chiedere alla Libia il suo Antonov 124 che Gheddafi usava per trasportare le proprie tende e che portava con sé in ogni viaggio all’estero. Essendo l’Indonesia il più popolato paese musulmano la Libia accettò di trasportare gli aiuti della Croce Rossa Italiana. Walter mandò aiuti ai bambini in Libia durante la primavera araba convinto che non si possano incolpare i bambini per il fanatismo dei genitori. L’operazione è apparsa in Libia con la menzione che il fautore era un ebreo libico israeliano. Per Walter il ricordo delle sofferenze degli ebrei tripolini è giusto che non vada perduto e per questo motivo ha partecipato alla costruzione di un museo in ricordo della Storia degli Ebrei di Libia ad Or Yehuda in Israele e al museo italiano di Gerusalemme in cui ha contribuito a concretizzare il sogno di molti ebrei libici. Anche a Roma, con una donazione, ha permesso di realizzare, nel Museo Ebraico, un’ala dedicata alla Libia. Con il suo operato ha messo in pratica una regola importante della Torah: “Ama il prossimo tuo come se stesso”. Lui sostiene che è umano serbare rancore per il male che è stato fatto al popolo ebraico, ma che bisogna combattere l’odio con la tolleranza perché solo con questi gesti è possibile creare un ponte tra i popoli, e costruire dialoghi volti alla pace.
Nel 1967 viveva con la sua famiglia al centro di Tripoli, sopra al Caffè Gambrinus, in una palazzina di loro proprietà. Andava in Italia per diletto molte volte durante l’anno. Il suo rapporto con la comunità libica era abbastanza tranquillo, infatti aveva molti amici libici con i quali usciva. Il 5 giugno del 1967 iniziarono i tumulti. Ivo Uzan, il gestore del Caffè Gambrinus, dovette chiudere in fretta e furia e rifugiarsi a casa loro, perché era scoppiato il finimondo e la folla inferocita cercò di abbattere la porta, non riuscendoci. Spaventati scapparono sul tetto e da esso andarono dai loro vicini e da lì si rifugiarono a casa della famiglia Hadad, dove rimasero nascosti per alcuni giorni fino a che decisero di partire. Avendo la nazionalità inglese, contattarono l’ambasciata d’Inghilterra che li prelevò e li portò all’aeroporto, ma una volta lì furono lasciati soli. All’aeroporto si sentiva alla radio parlare della Guerra e sentirono che l’Inghilterra e la Francia avevano aiutato Israele. Avendo passaporti inglesi, la madre si spaventò molto. Arrivati al bureau dell’immigrazione, il poliziotto prese i loro passaporti per controllarli e, quando vide che erano di nazionalità inglese, iniziò ad urlare: “Non sono solo ebrei, sono ebrei inglesi!”. Arrivò una folla inferocita, che con i carrelli dei bagagli li spinse contro il muro. Iniziarono ad insultarli e alcuni di loro sputarono addosso a sua madre. Fortunatamente a un certo punto arrivò il direttore dell’Alitalia, Renato Tarantino, che riuscì a strapparli alla folla chiudendoli nel suo ufficio.
Dovevano assolutamente recuperare i loro passaporti. Il direttore li tranquillizzò dicendo che ci avrebbe pensato lui e infatti così fece. Poi consigliò loro di tornare a Tripoli, perché non potevano partire con quella gente che li attendeva al varco. Fece uscire tutti dalla finestra e salirono nella sua macchina, ma questa fu rovesciata dalla folla. Tarantino con l’aiuto di alcuni soldati riuscì a disperdere quegli infervorati e Jack Abravanel, che aveva accompagnato la figlia in aeroporto, dette loro un passaggio per riportarli a casa. A Tripoli fecero alcune telefonate a Tarantino e all’ambasciata inglese: l’ambasciatore li rassicurò dicendo che sarebbero stati riaccompagnati all’aeroporto e che questa volta non sarebbero stati abbandonati. Avrebbero fatto di tutto per farli imbarcare, e così andò. Walter conserva un meraviglioso ricordo di Tarantino, e vorrebbe organizzare un evento per rendergli omaggio. Pochi ebrei libici sanno che è grazie a lui che tante persone sono potute partire durante il pogrom del 1967. Stando in aeroporto, riusciva ad organizzare le partenze, mettendo i non ebrei sulla linea della Libia Airways. Sui voli Alitalia riservava i posti liberi agli ebrei.
Nella famiglia Arbib tradizioni religiose e Mizvoth erano rispettate, in casa si mangiava solo kosher. Avevano una vita abbastanza benestante grazie ad una pompa di benzina nella quale lavorava, nonostante la cecità, anche suo padre, e un lavorante che si chiamava Mustafà. Possedevano vari immobili incluso una villa di proprietà chiamata Villa Bambola a Feshlum, vicino a Tripoli. La famiglia, in seguito, decise di chiamare Villa Bambola la loro Villa a St Martin, dove abitano parte dell’anno. Alla sua famiglia non ha raccontato spesso le esperienze traumatiche né quelle positive vissute a Tripoli, Di sicuro i suoi nipoti quando diventeranno più grandi dovranno conoscere tutta la storia, ma raccontata in modo corretto, senza rancori. È molto importante perché essa fa parte anche della loro vita. Da parte sua non ha mai trasmesso ai suoi figli l’odio verso i libici, anche grazie al suo esempio filantropico. L’esperienza del pogrom è stata sicuramente traumatizzante per tutti, ma le reazioni furono molto soggettive. Lui personalmente era rimasto scioccato. Quando arrivò all’aeroporto di Fiumicino ritrovò tanti amici italiani e addirittura il proprietario dell’American Palace, il residence dove aveva abitato, che gli offrì di tornare a viverci, come ospite, senza dover pagare nulla. Quella dimostrazione di affetto fece nascere in Walter un sentimento positivo, e pensò che forse tutto si sarebbe sistemato, sia per lui che per tutti coloro che erano dovuti scappare dalla Libia. Dopo pochi giorni trovò lavoro in un salone d’auto di proprietà di un amico di Roma, Tino Mattioli. Per aiutare la Comunità tripolina riuscì a fare un accordo con il proprietario della rivendita che tramite un notaio stipulava contratti di vendita delle macchine che gli ebrei avevano dovuto lasciare in Libia. Così sul posto qualcuno si occupava di venderle e il ricavato veniva inviato a Roma, e con esso poterono comprare una macchina nuova.
La sua famiglia non era particolarmente religiosa, anche se alcune tradizioni importanti venivano osservate. Nel tempo si è dispersa tra Canada, Israele e Italia. Fortunatamente in queste tre nazioni lui è sempre stato accolto e si è ben integrato, ed è riuscito a realizzarsi economicamente, specialmente in Canada che offre a tutti la possibilità di affermarsi e costruire un’attività e un futuro. Così Walter è diventato un uomo d’affari. In tutte e tre le nazioni nominate sopra si sente a casa, anche se, in realtà, dice, “nel cuore di ogni ebreo casa è in Israele”. Walter è fermamente convinto che una qualsiasi possibilità di risarcimento potrà avvenire dopo che Israele e la Libia arriveranno a un accordo e diventerebbe quindi parte di tale accordo. È inoltre convinto che qualsiasi passo si possa fare per riuscire ad ottenere dei risultati dovrebbe essere messo in atto in silenzio, senza clamore. Bisognerebbe preservare le due sinagoghe rimaste a Tripoli e i due cimiteri. Per quanto riguarda le ossa dei defunti del Cimitero Monumentale che la famiglia Arbib aveva fatto costruire e che poi era stato raso al suolo per costruirci sopra un’autostrada, queste sono custodite in scatoloni in un magazzino a Bengasi. Bisognerebbe fare qualcosa per portarle via di lì, ma sempre creando delle vie di dialogo con i responsabili del governo presenti in Libia e senza pubblicizzare questo fatto. Mettere delle targhe al posto delle vecchie sinagoghe come ricordo sarebbe sicuramente auspicabile. Usando vie diplomatiche fra Stati, dimostrando alle nazioni che gli ebrei non portano rancore ma amano il loro prossimo, forse si potrebbero creare le basi per ottenere tutto ciò di cui si è parlato.
Cosa ha potuto fare in Italia che in Libia non avrebbe potuto fare se fosse rimasto li? Walter risponde che non avrebbe potuto realizzare progetti, forse avrebbe potuto trovare qualcosa da fare e continuare con i suoi viaggi vacanza in Italia. Ma ciò che lui ha trovato in Italia è stata la libertà di essere se stesso. Dedicarsi alla filantropia ora è lo scopo della sua vita. Il messaggio che vorrebbe trasmettere, e insegnare alle future generazioni, è di non dare mai spazio all’odio, di dimenticarlo, che fa solo male e distrugge e di trovare sempre il modo di evitare di scatenare conflittualità tra i popoli, scegliendo sempre il dialogo.

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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(24 gennaio 2022)